BUON CUORE, … MA NON SOLO

F. Gonin, Bortolo e Renzo

​Verso la fine del XVII Capitolo de I Promessi Sposi facciamo conoscenza del signor Bortolo Castagneri, cugino (figlio certamente non d’uno zio paterno; per il resto non si sa se da parte di padre o di madre) del nostro Lorenzo Tramaglino o, come dicevan tutti, Renzo. Il quale, fuggito da Milano e sfuggito ai birri, il lunedì 13 novembre 1628, sbarca in terra di san Marco e in prossimità della città di Bergamo. A una cert’ora della mattinata

“Arriva al paese del cugino; nell’entrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio, entra, domanda ad alta voce, tra il rumore dell’acqua cadente e delle rote, se stia lì un certo Bortolo Castagneri…. vede il cugino, gli corre incontro. Quello si volta, riconosce il giovine, che gli dice: – son qui –. Un oh! di sorpresa, un alzar di braccia, un gettarsele al collo scambievolmente. Dopo quelle prime accoglienze, Bortolo tira il nostro giovine lontano dallo strepito degli ordigni, e dagli occhi de’ curiosi, in un’altra stanza, e gli dice: – ti vedo volentieri; ma sei un benedetto figliuolo. T’avevo invitato tante volte; non sei mai voluto venire; ora arrivi in un momento un po’ critico”.

​Vien fatto di pensare, intanto, che Bortolo sia un uomo pratico e spiccio, che, prima d’ogni spiegazione e conseguente richiesta, s’è subito reso conto che Renzo, con quel suo “son qui”,non è appunto lì per una visita di cortesia: e mette prontamente le mani avanti.

​L’approccio, se vogliamo, anche un po’ ruvido non scoraggia e, forse, nemmeno stupisce più di tanto l’ultimo venuto. Sarà perché Renzo conosce il carattere del cugino, buono, franco e deciso; sarà che, senza dar l’impressione di stare a elemosinare, ha dalla sua motivi molto seri per essersi mosso;… il fatto è che risponde con dignità e sentimento: e qui vien fuori il Bortolo largo di cuore.

“– Se te lo devo dire, non sono venuto via di mia volontà, disse Renzo; e, con la più gran brevità, non però senza molta commozione, gli raccontò la dolorosa storia.

– È un altro par di maniche, – disse Bortolo. – Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto capitale di me e io non t’abbandonerò. Veramente, ora non c’è ricerca d’operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran parte la deve a me, senza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità. Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum. Povera Lucia Mondella! Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza! sempre la più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua casuccia…. Mi par di vederla, quella casuccia, appena fuor del paese, con un bel fico che passava il muro….

– No, no; non ne parliamo.

– Volevo dire che, quando si passava da quella casuccia, sempre si sentiva quell’aspo, che girava, girava, girava. E quel don Rodrigo! già, anche al mio tempo, era per quella strada; ma ora fa il diavolo affatto, a quel che vedo: fin che Dio gli lascia la briglia sul collo. Dunque, come ti dicevo, anche qui si patisce un po’ la fame…. A proposito, come stai d’appetito?

– Ho mangiato poco fa, per viaggio.

– E a danari, come stiamo?

Renzo stese una mano, l’avvicinò alla bocca, e vi fece scorrer sopra un piccol soffio.

– Non importa, – disse Bortolo: – n’ho io: e non ci pensare, che, presto presto, cambiandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e te n’avanzerà anche per te.

– Ho qualcosina a casa; e me li farò mandare.

– Va bene; e intanto fa’ conto di me. Dio m’ha dato del bene, perché faccia del bene; e se non ne fo a’ parenti e agli amici, a chi ne farò?”.

​“Quell’aspo, che girava, girava, girava”, lo sentiva chi passava dalla casuccia di Lucia; lei, dal sabato 11 novembre 1628 nel Monastero della Signora, – e lì alloggiata per un mese circa, fino al sabato 9 dicembre, quando verrà rapita dai bravi dell’Innominato, – lei il suo aspo se l’era come portato con sé, anzi: dentro di sé.

“… pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose!”.

​Nel ricordo di Bortolo c’è la ripetitiva sonorità del ritmo del lavoro assiduo; non saprei dire se la sua voce nel narrare vada a un certo punto rallentando verso il sussurro e, magari, anche lui ci si perda un po’ dietro a quell’aspo. Dalla punteggiatura parrebbe piuttosto trattarsi d’un bel ricordo nostalgico, senza che svaniscain un che di sognante: il che avrebbe fatto un po’ anche di Bortolo un animo poetico.

​La concretezza della sua generosità non lascia dubbi: il denaro viene prestato, anticipato, non regalato; c’è però anche un tocco di delicatezza sia nel non metter scadenze e fissare modo del rimborso ed anche accettando un sia pur improbabile rischio, – perché conosceva “Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere” e, dunque, difficilmente insolvente –, come appunto appare chiaro da quell’inciso: “se Dio vorrà, me li renderai”.

​Verso la fine del Capitolo XXVI ritroviamo dopo un bel po’, Bortolo, il nostro benevolo e sveglio factotum, che, per prudenza e stando in orecchi, provvede prontamente al trasferimento delcugino, “onesto e abile” operaio, in un altro filatoio, sotto il nome di Antonio Rivolta.

​In seguito succedono tante, troppe cose, molte delle qualiriguardano singole persone e personaggi; una, in particolare, riguarda e si abbatte su tutti: la peste. Attentamente e dolorosamente descritta, attingendo a ragguagli dell’epoca relativi all’evento, e aggiungendo quei particolari che trasformano in arte quello che sarebbe altrimenti solo cronaca, la peste occupa interamente il XXXI e XXXII Capitolo dell’opera manzoniana.
(continua)

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