(articolo di Aldo Cazzullo dal Corriere della sera)

Hanno lo stesso nome, Vladimiro, ma la loro immagine non potrebbe essere più diversa. Di là un autocrate settantenne gonfio e tronfio, chiuso in un Palazzo circondato da mura e da tombe, che parla per un’ora in giacca e cravatta minacciando la guerra nucleare, che non vede nessuno se non a distanza, che non conosce Instagram, non ama neppure le mail, preferisce il fax. Di qua un quarantenne, democraticamente eletto, divenuto un professionista digitale della comunicazione di guerra: maglietta verde militare, barba lunga, occhi febbrili, tweet in cui chiede aiuto e prende in giro chi non lo aiuta, video autoprodotti sullo sfondo di colonne di fumo, 15 milioni e mezzo di follower su Instagram in crescita ogni giorno, capace di alternare trovate da adolescente cresciuto online a discorsi vecchio stile: l’altra sera ha fatto alzare in piedi i deputati britannici citando il «we shall fight» con cui Churchill informava il mondo che avrebbe combattuto ovunque, e non si sarebbe arreso mai. Con chi volete che stiano i giovani del pianeta? Con Vladimir Vladimirovic Putin? O con Volodymyr Oleksandrovyc Zelensky?

La guerra si fa in primo luogo con le armi; e in questo campo Putin è ovviamente più forte, anche se ha sottovalutato sia la resistenza ucraina, sia la reazione occidentale, sia le perplessità del fronte interno. Ma la guerra moderna è anche guerra di comunicazione; pure in questo campo la battaglia è impari; ma a favore di Zelensky.

Putin si muove, pensa e parla come fossimo ancora nell’era analogica, preferibilmente nel 1999, l’anno in cui prese il potere, succedendo a un populista vulcanico, esagitato, alcolizzato come Boris Eltsin. Putin è un populista gelido. A lungo si è illuso di poter risalire indietro nel tempo, scavallando il settantennio comunista, e governare la Russia zarista e imperiale. Ha anche ripristinato l’aquila bicefala (ha capito però che il vecchio inno non scaldava i cuori e ha ripristinato quello sovietico, facendone riscrivere le parole allo stesso autore, Sergej Michalkov, il padre dei più grandi registi russi, Nikita Michalkov e Andrej Koncialovskij). Non a caso Putin ha definito l’Ucraina «un errore di Lenin». Nella sua logica ottocentesca — ammasso di truppe, incidente di confine, invasione, occupazione — non c’è posto per la comunicazione moderna, ma solo per l’ostensione dell’uomo forte, che pilota aerei, visita basi, arringa oligarchi, intimorisce generali, minaccia il resto del mondo.

Zelensky — lo ricordava ieri Andrea Nicastro sul Corriere — divenne celebre per aver impersonato un professore che veniva eletto presidente per un video rubato in classe e divenuto virale sui social. Ora si trova a impersonare il presidente vero di un Paese in guerra, i cui video diventano in effetti virali sui social; e se la sta cavando bene. Non mette in scena una tragedia; la filma, la impersona, la incarna. Si presenta come il capo di una comunità sconvolta ma non domata dall’aggressione. Ovviamente, anche lui come Putin sta facendo propaganda. Ovviamente, neppure Zelensky è un santo. Ha pure lui soldi da parte (come quasi tutti i leader politici, non solo a Est). Ma l’opinione pubblica occidentale empatizza con il Vladimiro ucraino, non con quello russo. Leonardo DiCaprio dona dieci milioni di dollari in memoria della nonna di Odessa, e non ai profughi, per i viveri; ai militari, per le armi. I marchi americani più popolari, da McDonald’s alla Coca Cola, lasciano Mosca, con il retrotesto che torneranno non appena Putin si sarà acquetato. Ovviamente nessuno di questi segnali è dirimente; ma tutti insieme confermano che Zelensky sta vincendo la battaglia delle parole e delle immagini.

Putin adesso è alla ricerca di un successo propagandistico, la presa di una città: Odessa, Kiev. Non vede l’ora di poter annunciare, sempre più gonfio e sempre più tronfio, il passaggio delle sue truppe vittoriose per strade altrui. Ma sarà un’altra mossa ottocentesca, che magari rafforzerà la fede dei russi — il coraggioso dissenso visto in questi giorni non va sopravvalutato —, ma screditerà ulteriormente Putin agli occhi del mondo intero. A quel punto il compromesso che fermi le armi e salvi l’indipendenza di un’Ucraina amputata ma non piegata sarebbe più vicino, e con esso la consacrazione di Zelensky. Se invece la simpatia e il fascino esercitati dal presidente ucraino indurranno Putin a eliminarlo fisicamente, allora la metamorfosi dell’attore comico in eroe nazionale sarà completa; e Zelensky avrà la fine che Montanelli e Rossellini avevano immaginato per l’oscuro personaggio che, a forza di impersonare il nobile generale Della Rovere, nella tragedia lo era diventato.

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