fra Giuseppe (Francesco Leclerc-du-Tremblay) .1

Due serafini per dire un cappuccino.

Gli Ugonotti trovarono pan per i loro denti in fra Eusebio di Merlon, che molti ne riportò alla chiesa cattolica con la sua attività di predicatore instancabile. Si dedicò, sulla scia di san Vincenzo de’ Paoli, al servizio apostolico di quella classe abbandonata per le campagne. Catechizzava fanciulli e adulti arrivando a fare sei o sette prediche al giorno senza trascurare carcerati e infermi, restando a volte senza toccare cibo. Prostrato da una penosa malattia con ammirevole pazienza sopportò privazioni e dolori, ricevendo la grazia di morire nell’età e giorno di nostro Signore Gesù Cristo, a soli trentatré anni, di venerdì tra l’ora sesta e l’ora nona. Singolare fu l’esperienza cappuccina di fra Angelo de Raconis, nato in Germania da genitori calvinisti, a causa della famosa strage di San Bartolomeo. Tornato in Francia iniziò, pieno di euforia, a demolire il papismo, ma nelle sue dispute ebbe la peggio e toccato dalla grazia, decise di farsi cappuccino dopo aver abiurato il calvinismo. Divenuto un missionario pieno di entusiasmo e uno zelante sacerdote ricondusse numerosi ugonotti e Calvinisti alla Chiesa sia in Francia che in Inghilterra. Come non parlare poi di frate Atanasio Molé, uomo dedito al silenzio, che aborriva parlare agli altri quando alle parole non corrispondeva la coerenza della vita. Tutta Parigi lo considerava una benedizione per la sua dedizione ai poveri, instancabile nella carità che lo portò a fondare nel 1618 una istituzione per recuperare le prostitute, detta delle Maddalenette, alle quali predicò lo stesso san Francesco di Sales! 

Quando vai al bar per gustare un buon cappuccino bisogna che siano ben dosate le proporzioni di due semplici elementi: il caffè ed il latte. Passando dalla realtà materiale a quella spirituale sarà la vita di un famosissimo missionario francese che ci dirà quali sono gli ingredienti per avere un cappuccino che si trangugia con gusto e soddisfazione, sto parlando nientemeno che di fra Giuseppe (al secolo Francesco Leclerc-du-Tremblay) Leclerc, nato a Parigi nel 1577 da Giovanni e Maria Lafayette, che vantavano diversi titoli onorifici e tre feudi. Il padre Giovanni tra i diversi incarichi ebbe anche quello di ambasciatore del re a Venezia e cancelliere del duca di Alençon. Il nostro futuro fra Giuseppe ben presto restò orfano di papà e fu educato da sua madre. Di vivace ingegno a 14 anni imparò rapidamente il greco, il latino la filosofia e il diritto, se la cavava benissimo anche nelle scienze e nelle arti. Rifiutava deciso le proposte di matrimonio, perché nel cuore sentiva nascere qualcosa di più profondo verso il Signore. Intanto imparò l’italiano, il tedesco, lo spagnolo, l’inglese, il fiammingo e l’ebraico, senza tralasciare la musica e la danza. A 19 anni visitò l’Italia e la Germania. Prese parte da valido combattente all’assedio di Amiens. Si pensava di fare di lui un diplomatico e viaggiò per l’Inghilterra. Ma la grazia di Dio lo stava lavorando dentro. Rifiutò decisamente altre proposte di matrimonio e con ferma volontà si oppose alla volontà materna che fece di tutto per distoglierlo dalla vita religiosa. Francesco Leclerc sempre rispondeva con le parole di Gesù: Chi ama il Padre e la madre più di me, non è degno di me! Alla fine la mamma accettò e partecipò pure alla sua professione religiosa. Tanto era il suo entusiasmo per la radicalità evangelica della vita cappuccina che fu fatto maestro dei novizi. Coloro che furono da lui formati tanto ardevano dello spirito missionario che con fervore chiedevano al provinciale di portare la fiaccola del vangelo alle nazioni più lontane. Fra Giuseppe si dedicò anima e corpo alla predicazione e alle missioni. Fu chiamato in molti conventi che volevano recuperare una testimonianza autentica del vangelo. Fu grande e inseparabile amico del cardinal Richelieu. Ancora giovane ma pieno di saggezza e santità fu eletto provinciale nella provincia di Turena, e diresse queste infuocate parole ai confratelli: “Ricordatevi, che noi rappresentiamo nella Chiesa di Dio l’ufficio di quei due serafini d’Isaia, dei quali mentre uno vola fra gli uomini e porta loro il carbone acceso, l’altro resta fermo presso il trono di Dio. Così mentre una porzione dei nostri si occupa a scaldare il mondo nell’amore di Gesù Cristo, voi non vi muovete dal trono e dal tabernacolo di sua divina Maestà” (p. 180). Affermava inoltre che “una delle nostre ali e, se posso dire così, il nostro quarto voto, è l’orazione” (idem),. Per un cappuccino non ci sono cose migliori di queste: servire Dio dentro con l’razione e fuori con l’evangelizzazione, secondo il gran bisogno della chiesa e della religione cattolica. Questa frase dovrebbe essere scritta a caratteri di fuoco in ogni convento: “Uno dei più degni uffizii dell’apostolato, è di annunciare Gesù ove non è stato mai annunziato o dove è stato messo in oblio: sembra che sia questa in questi ultimi tempi la porzione di san Francesco” (p.180-181).

Fra Renato Camagni

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