Le promesse a Israele

Lettera ai Romani 9,1-5: Fratelli, dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

Questi versetti rappresentano l’introduzione a tre capitoli particolari della lettera ai Romani (Rm 9-11), nei quali Paolo assume una posizione apologetica verso Dio, soprattutto, ma anche verso se stesso: è come, cioè, se ne prendesse le difese. Prima della difesa di Dio (che svilupperà nei vv. 9,6-11,10), Paolo presenta i privilegi d’Israele in questa introduzione, percorsa da sentimenti di sincera emozione, che ruotano intorno al suo desiderio di essere anàtema in favore dei fratelli. Letteralmente, Paolo si augura, se fosse possibile, di essere una cosa maledetta per il fatto di essere separato da Cristo. Questa maledizione mette in gioco la salvezza eterna, perché nei capitoli precedenti della lettera, Paolo ha motivato chiaramente come se ne possa godere solo nell’unione con Cristo. Il desiderio espresso in una formula eccessiva mostra l’ardore che Paolo prova verso i suoi fratelli, cioè gli ebrei. Nell’epistolario paolino, «fratelli» sono i credenti in Cristo, uniti in un solo corpo dal battesimo, ma qui Paolo usa il termine per indicare la sua comune appartenenza con gli «Israeliti», come si indica il popolo eletto visto dall’interno, ad intra, secondo l’uso biblico, che risale alla parola Dio rivolta a Giacobbe (cf Gen 32,29). Quando il popolo viene indicato da chi non vi appartiene, allora si usa «giudei», come fa Paolo stesso quando si pone in una posizione esterna ad esso.

Al popolo appartengono una serie di doni ricevuti da Dio, che lo pongono in una posizione privilegiata, di per sé non destinata a concludersi davanti a un ulteriore intervento divino nella storia. I doni sono presentati prima di tutto in una doppia serie ternaria (l’adozione a figli, la gloria e le alleanze; la legge, il culto, e le promesse). A queste si aggiunge quella dei patriarchi con un chiaro riferimento alla concretezza della storia, che sfocia nel dono imprevedibile ed esuberante rispetto a tutti gli altri: Cristo. La formula conclusiva «secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli» trasporta in un rendimento di grazie la realtà colui che è nato nella fragilità della carne umana per entrare nella dimensione divina con tutta la sua dimensione corporale. Si tratta di Gesù Cristo, nostro Signore, «il quale fu generato dal seme di Davide come uomo e fu costituito Figlio di Dio in potenza, secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,3-4).

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