L’essenziale è invisibile agli occhi

Una ragazza che aveva fatto un ritiro-deserto presso il convento de Le Celle, mi confidò le sue impressioni di quell’esperienza. Era arrivato al nostro Eremo di Cortona con tanti dubbi e timori: era la prima volta che partecipava, sarebbe dovuta rimanere lì cinque giorni e non conosceva nessuno. Aveva sentito per telefono la voce di un frate. Per fortuna era una voce rassicurante: «Ti aspettiamo!», le disse con tono gentile e questo bastò a rasserenarla. Non si spiegava come un volantino visto di sfuggita una domenica alla messa (di cui non era un’assidua frequentatrice, ma solo «quando le andava»!), l’aveva attratta tanto da farle vincere le sue paure e telefonare per andare a quell’incontro. «Deserto per giovani in ricerca vocazionale», c’era scritto e per lei fu come una folgorazione. In realtà non sapeva nemmeno bene cosa volesse dire, ma qualcosa dentro di lei le diceva che quello era ciò che stava cercando, ciò di cui aveva bisogno. Stava attraversando, mi disse, un periodo faticoso, sia al lavoro sia con i familiari e gli amici; pareva che non si capissero più, come se avessero, improvvisamente e senza un motivo apparente, interessi diversi. Le cose che prima la attraevano adesso non le davano più alcuna soddisfazione, anzi le procuravano repulsione e rabbia, le sembravano sciocche e prive di senso. Mi confidò che, purtroppo, anche le persone che praticavano tali cose le davano la stessa sensazione di fastidio.

Il ritiro, rotto il ghiaccio dei primi attimi per fare conoscenza con gli altri, era scivolato via serenamente in un clima di fraterna giovialità, tra catechesi, messe e preghiere a un ritmo intenso. Con gli occhi che le brillavano di gioia e commozione, mi parlò dell’evento che più l’aveva colpita: il quarto giorno, dopo la catechesi pomeridiana, il frate che guidava il ritiro invitò ognuno a trovarsi un posticino tranquillo, dentro il convento o all’esterno a scelta, e da soli meditare in silenzio su quanto era stato detto e vissuto in quei giorni. Fu dato appuntamento, per rivedersi insieme, dopo tre quarti d’ora. Trascorsero pochi attimi per trovare il posto – lo cercò fuori, all’aperto – e si ritrovò con circa quaranta minuti da trascorrere lì da sola, senza sapere bene cosa volesse dire “meditare in silenzio”.

Era una situazione che non aveva mai vissuto prima, totalmente nuova per lei, ragazza vivace, impegnata nel lavoro, con un sacco di amicizie, abituata al rumore della movida, anche se nell’ultimo periodo non la appagava più come prima. Mi raccontò che i primi venti minuti di quella solitudine forzata furono terribili, come se le prendessero attacchi di panico e fu più volte sul punto di fuggire per andare a cercare qualcuno con cui parlare. Con non poco sforzo, rimase al suo posto. Trascorsa la prima parte di meditazione molto tormentata, la seconda fu di tutt’altro sapore spirituale. Fu come se si fosse sbloccato qualcosa in lei, le paure e i timori svaniti. Cominciò a osservare e ascoltare la realtà che la circondava: il cinguettio degli uccelli, lo scorrere del torrente, lo stormire leggero del vento tra le foglie degli alberi, il cielo azzurro con qualche nuvoletta bianca, il riverbero ocra dei raggi solari sulle pietre grigie dell’Eremo. Tutto improvvisamente, come per incanto, si era trasformato.

In qualche modo, è la stessa esperienza che fece san Francesco dopo l’incontro con i lebbrosi, l’incontro-scontro con le sue paure. Il santo d’Assisi, riferito a quell’evento, dirà nel Testamento: «ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo.» (FF 110) Solo fidandoci di Dio gli permettiamo di compiere meraviglie in noi.

La ragazza proseguì dicendomi che era come se avesse scoperto una presenza che abitava tutte le cose. La percepiva con i sensi pur essendo invisibile: era nei colori, negli odori, nei suoni, nel vento e nell’aria, nell’erba e nei sassi, nelle cose animate come in quelle inanimate. Era lì, tangibile nella sua evidenza, palpabile nella sua verità. «E la cosa buffa» continuò, «è che era sempre stata lì, davanti a me, intorno a me, ma io non me ne sono mai accorta, presa com’ero dalle cose da fare, dalla corsa frenetica della vita!».

Credo che molti potrebbero attribuire a se stessi quest’ultima affermazione. Il silenzio fa paura, dà un insopportabile senso di vuoto, meglio il frastuono che copre e riempie tutto, anche se sgraziato e assordante. In realtà, ciò che serve davvero all’uomo è fermarsi ogni tanto, rallentare l’affannosa corsa quotidiana, immergersi e stare nel silenzio, mettersi in ascolto di quel sussurro che parla al cuore e rigenera l’anima. È uno dei grandi paradossi che vive chi scopre questa presenza, chi si lascia incontrare dall’eterno: nel silenzio è la vita stessa a parlare; in ciò che sembra vuoto e nulla c’è il tutto dell’esistenza.

Terminato il tempo della meditazione, la campana del convento suonò per richiamare i ragazzi, e lei non sarebbe voluta venire via dal suo “angolo di cielo”. Aveva trovato ciò che cercava, la motivazione per la quale era andata a quel ritiro. Aveva trovato l’essenziale che cercava, o meglio, l’essenziale si era lasciato trovare andandole incontro. Terminò il racconto citando le parole della Volpe al Piccolo Principe, nel famoso libro di Antoine de Saint-Exupéry: «Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.» Dichiarando: «Quanto sono vere!»

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