F. Gonin, La predica di P. Felice

FELICE CASATI MILANESE
dell’ordine dei cappuccini
descritto come stupendo eroe di carità
nella narrazione manzoniana
della peste di Milano
moriva in questo convento
il dì V maggio MDCLVI
Livorno, Chiesa della SS. Trinità

            Dato uno sguardo, nelle puntate immediatamente precedenti, alla concreta bontà umana, – non priva, com’è, di qualche aspetto secondario che l’allontana dalla santità, pur lasciandola comunque una merce sempre un po’ troppo rara –, c’è il caso di un personaggio veramente esistito, del quale scrive il Manzoni, di cui non sappiamo se abbia fatto miracoli, ma che certamente si è speso in quella carità che non conosce limiti, anzi: è convinta che avrebbe potuto e dovuto fare meglio e di più di quanto non si sia spesa. Si tratta del p. Felice Casati, quello della lapide sopra trascritta, a proposito del quale non c’è nulla di più conveniente che fermarsi direttamente sulla pagina del Manzoni appunto, che è, nello stesso tempo, narrazione, commento ed emozione.
            Siamo nel lazzeretto di Milano, quando sta per formarsi la processione dei pochi sopravvissuti al contagio, in uscita verso il luogo della loro quarantena.

            «Diamo un pensiero ai mille e mille che sono usciti di là;» e, col dito alzato sopra la spalla, accennava dietro sé la porta che mette al cimitero detto di san Gregorio, il quale allora era tutto, si può dire, una gran fossa: «diamo intorno un’occhiata ai mille e mille che rimangon qui, troppo incerti di dove sian per uscire; diamo un’occhiata a noi, così pochi, che n’usciamo a salvamento. Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia! benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perché l’ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall’afflizione, e infervorato dalla gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l’impieghiamo nell’opere che si possono offrire a Lui? se non a fine che la memoria de’ nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi? Questi intanto, in compagnia de’ quali abbiamo penato, sperato, temuto; tra i quali lasciamo degli amici, de’ congiunti; e che tutti son poi finalmente nostri fratelli; quelli tra questi, che ci vedranno passare in mezzo a loro, mentre forse riceveranno qualche sollievo nel pensare che qualcheduno esce pur salvo di qui, ricevano edificazione dal nostro contegno. Dio non voglia che possano vedere in noi una gioia rumorosa, una gioia mondana d’avere scansata quella morte, con la quale essi stanno ancor dibattendosi. Vedano che partiamo ringraziando per noi, e pregando per loro; e possan dire: anche fuor di qui, questi si ricorderanno di noi, continueranno a pregare per noi meschini. Cominciamo da questo viaggio, da’ primi passi che siam per fare, una vita tutta di carità. Quelli che sono tornati nell’antico vigore, diano un braccio fraterno ai fiacchi; giovani, sostenete i vecchi; voi che siete rimasti senza figliuoli, vedete, intorno a voi, quanti figliuoli rimasti senza padre! siatelo per loro! E questa carità, ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà anche i vostri dolori».

            Qui un sordo mormorìo di gemiti, un singhiozzìo che andava crescendo nell’adunanza, fu sospeso a un tratto, nel vedere il predicatore mettersi una corda al collo, e buttarsi in ginocchio: e si stava in gran silenzio, aspettando quel che fosse per dire.

            «Per me,» disse, «e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero. Se la pigrizia, se l’indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevol tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandolo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica». E, fatto sull’udienza un gran segno di croce, s’alzò.

            Noi abbiam potuto riferire, se non le precise parole, il senso almeno, il tema di quelle che proferì davvero; ma la maniera con cui furon dette non è cosa da potersi descrivere. Era la maniera d’un uomo che chiamavaprivilegio quello di servir gli appestati, perché lo teneva per tale; che confessava di non averci degnamentecorrisposto, perché sentiva di non averci corrisposto degnamente; che chiedeva perdono, perché era persuasod’averne bisogno. Ma la gente che s’era veduti d’intorno que’ cappuccini non occupati d’altro che di servirla, e tanti n’aveva veduti morire, e quello che parlava per tutti, sempre il primo alla fatica, come nell’autorità, se non quando s’era trovato anche lui in fin di morte; pensate con che singhiozzi, con che lacrime rispose a tali parole. Il mirabil frate prese poi una gran croce ch’era appoggiata a un pilastro, se la inalberò davanti, lasciò sull’orlo del portico esteriore i sandali, scese gli scalini, e, tra la folla che gli fece rispettosamente largo, s’avviò per mettersi alla testa di essa.
(Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, XXXVI, 5-8)

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