È il grido liberatorio dei naviganti quando vedevano all’orizzonte, dopo giorni di viaggio, le linee del litorale. Quei lidi dai colori slavati, sospesi tra acqua e cielo, rappresentavano per i marinai la fine del loro essere sballottati dalle onde, era l’approdo sospirato, porto sicuro di salvezza. Il Papa nell’Angelus del 19 luglio 2020, commentando la parabola del grano e la zizzania, afferma:

Il male, certo, va rigettato, ma i malvagi sono persone con cui bisogna usare pazienza. Non si tratta di quella tolleranza ipocrita che nasconde ambiguità, ma della giustizia mitigata dalla misericordia. Se Gesù è venuto a cercare i peccatori più che i giusti, a curare i malati prima ancora che i sani, anche l’azione di noi suoi discepoli dev’essere rivolta non a sopprimere i malvagi, ma a salvarli.

La nostra giustizia, troppo spesso, non va oltre un mero giustizialismo. «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo,» esorta san Paolo «ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).

A riguardo, mi viene in mente l’episodio di san Francesco e i ladroni di Montecasale, dove il santo d’Assisi esorta i frati a usare verso quelle persone, che pure facevano tanto male, «carità e familiarità» (FF 1669). Penso sia proprio questo l’atteggiamento che ci deve contraddistinguere come esseri umani, indipendentemente dagli errori o dalle scelte sbagliate che personalmente possiamo compiere. Siamo, figli di uno stesso Padre, quindi fratelli; familiari di un Dio che è amore (cf. 1Gv 4), accomunati da uno stesso destino, pellegrini sulle strade di questo mondo, impegnati nello stesso viaggio, quello della vita.

Ma perché tutto questo non resti solamente una ideale e sterile dottrina, ma assuma concretezza, dobbiamo compiere un esodo, uscire dalla nostra terra e intraprendere il viaggio per raggiungere l’altro dove si trova, nella sua terra. Solo così possiamo scoprire che pure quella è fertile e ha solo bisogno di essere irrigata con un po’ d’affetto. La felicità, la nostra terra promessa, è nello sguardo e nel cuore dell’altro che ci sta vicino nel cammino della vita. Solo fidandoci, gettandoci in lui e accogliendolo con tutto noi stessi, realizziamo ciò che siamo: amore, amore puro, senza finzioni, senza maschere. Il suo cuore è il nostro approdo, il porto sicuro, il fine del nostro pellegrinare, la nostra Pasqua.

Sembra un paradosso ma prenderci a cuore qualcuno e cercare di renderlo felice è la nostra salvezza, la nostra pace, il nostro riposo, la nostra salute, il senso del nostro andare. La nostra felicità personale si rende concreta nella felicità dell’altro. Così, la mia felicità diventa tangibile nella carne dell’altro, e le mie ferite si saneranno medicando le ferite della sua carne. Sono vivo, e lo sarò in eterno, solo nella misura che riuscirò diventare quel dono gratuito affinché il mio compagno di viaggio, il mio amico, mio fratello, abbia la vita. (vd. Gv 15,13)

Parteciperemo così attivamente, non soltanto come spettatori inermi, all’opera della Salvezza portata da Gesù, realizzando la nostra e quella di coloro che il Padre metterà sul nostro cammino. (cf. Rm 8,14-17)

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