“Mentre gioiosa, e lieta e non meno d’infervorata devozione ardente,

che d’affettuosa allegrezza giubilante ammiro la moltitudine di popolo riverente…”.

            Riprendiamo il discorso iniziato riportando l’articolo in cui su dà conto del ritrovamento del testo del celebre panegirico, insieme ad un paio di stralci dal medesimo, relativi all’esordio e al punto in cui entrano in ballo Archimede e Carneade. L’andamento fa subito venire in mente l’Introduzione alla Storia milanese del XVII secolo, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni:

            “L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi:..”.

            Solito sperticato elogio dei precedenti storici o, forse meglio, degli illustri annalisti del passato; solita affettata dichiarazione di personale modestia, per essere onninamente impari a tanta impresa; solita ampollosa dichiarazione della straordinaria dignità di certi argomenti o persone: qui nientemeno che l’Historia, là il nome pregiatissimo di San Carlo….

Da “FASCICOLO LXXV                                                                            MARZO – APRILE 1938

RIVISTA DELLA CONGREGAZIONE DI SOMASCA

Vol. XIV – 1938

Curiosità Manzoniane – Pagg. 85-86.88”

(La pag. 87 è il frontespizio sopra riportato in formato ridotto; RC_1938_75.pdf)

            Il rev.mo Can.co Carlo Castiglioni nel fascicolo XII – 1 Marzo 1938: ECHI DI S. CARLO BORROMEO – dà notizie d’un prezioso risultato di sue ricerche personali intorno a una circostanza finora oscura dei Promessi Sposi.

            «Qual era il panegirico che D. Abbondio stava leggendo quella malaugurata sera d’autunno dell’anno 1628 (che era poi quella del venerdì 10 novembre), in cui i promessi sposi gli giocano quel brutto tiro proprio nella sua canonica? Da quanto dice il romanziere doveva essere quello che fu recitato in Duomo la festa di San Carlo del 1626. Ma chi fra i lettori del romanzo ha mai potuto averlo fra le mani quel panegirico?».

            A questo punto riporta studi, ricerche, supposizioni, risultati negativi di vari critici: Antonio Belloni, Giulio Dolci, Tommasini, Mattiucci, Luchini. Quest’ultimo aveva supposto che si trattasse del panegirico «recitato nel 1626 dal somasco Giuseppe Avogadro…, allora professore di Teologia a S. Maria Segreta in Milano, ove era prevosto». Ma… due circostanze rendevano semplicemente impossibile la supposizione; 1.o che nel discorso non si nomina nemmeno Carneade e Archimede; 2.o che il panegirico fu stampato nel 1652, nello stesso anno in cui venne recitato: dunque nientemeno che 26 anni dopo la data in questione!

            Con questi risultati negativi la famosa allusione rimaneva sempre un mistero. Unica via di scampo, più naturale e sensata, il supporre che Alessandro Manzoni abbia inventato – come argutamente opinava il Tommasini – circostanze e particolari, riuscendo a costruire sopra un fatto così secondario del romanzo «una satira arguta, acuta, sottile, tale da stare a pari, per vari rispetti, a quella che ne avevano già fatta, due secoli prima, il Tassoni, il Boccalini, l’Eritreo ed altri spiriti originali e bizzarri».

            La scoperta del Rev.mo Can.co Castiglioni riguarda appunto questo famoso panegirico. Raccolti, con ammirabile pazienza, circa cento discorsi recitati in onore di S. Carlo in Milano nei secoli XVI-XVIII, ogni ricerca aveva dato risultato negativo.

            “Ma per un ultimo scrupolo, espone l’erudito Dottore dell’Ambrosiana, volli insistere ancora dietro un nuovo filo conduttore. Ed eccomi alfine tra le mani il famoso panegirico del 1626. Fu stampato in un opuscoletto, che ora si trova inserto                                                               (pag. 85)

in un volume miscellaneo di catechismi della Biblioteca Ambrosiana: porta la segnatura S. B. S. IV 18… L’inserto n. 4 si intitola:

            La dottrina – di San Carlo – Borromeo – spiegata – da – Vincenzo Tasca – venetiano – chierico regolare della Congregazione di – Somasca – nel Duomo di Milano – addì 4 novembre 1626 – in Milano – Per Giovan Battista Cerri. MDCXXVI – Con licentia dei Superiori et Privilegio. L’opuscolo di cm. 16 x 10 numera pagine 30 di stampa. Il titolo stesso del panegirico in un frettoloso aggruppamento di opuscoli ha fatto sì che finisse, anziché tra i panegirici, in una raccolta di Dottrinette”.

            Nel citato articolo il Dottor Castiglioni ci dà vari saggi del curioso testo, che al povero Don Abbondio riusciva tanto difficile. Noi trascriviamo il primo periodo dell’esordio e il punto culminante… quello del maggior interesse.

            Ecco l’inizio: «Mentre gioiosa, e lieta e non meno d’infervorata devozione ardente, che d’affettuosa allegrezza giubilante ammiro la moltitudine di popolo riverente in questo augustissimo tempio ragunata festeggiare con pompa signorile gli accresciuti, e nobilitati fasti di Santa Chiesa, col nome pregiatissimo di San Carlo, e scorgo insieme uguale alla divotione il desio d’ascoltare il solito panegirico, che quasi in voto universale a lui sacrato in questo solennissimo giorno annualmente si porge, e ravviso nella memoria di ciascheduno indelebilmente impressa la bella Idea di quell’alma beata; (che dalla Regia d’inalterabile riposo attende e gode) dal dolce canto, che risuona ben’anco nelle purgate orecchie dei più canori cigni, dalla soave melodia de’ fecondi oratori, che da questo luogo hanno fin’hora con felicità impareggiabile spiegate le sovrane lodi a così eminente soggetto convenevoli: Arresto e mi sgomento non poco, Illustrissimo, e Reverendissimo Prencipe, Eccelentissimo Senato, Nobilissimi Signori, e condanno, il temerario mio ardire di havere intrapreso tanto difficile, e faticosa carica, sotto il di cui peso hanno sudato i più elevati ingegni, i più famosi, ed eloquenti dicitori della nostra Italia; e ciò che in altri forse si stimerebbe rettorico colore, e si ascriverebbe a modestia, o a finta scusa, veggo in me per molti titoli, e ragioni, con pratica esperienza avverarsi».

                                                                                                                                            (2. continua)

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