IL PRIMO CONVENTO FRANCESCANO

Le Celle di Cortona, Oratorio
“Cellam gyro parvam paupertas struxit et arte rudem”

            Dove si trova il manoscritto di quella elegia di soli sedici distici, così tanto elaborata, colta, complessa e, in pari tempo, tronfia e barocca? Se ci lasciassimo prendere la mano da quanto siamo venuti fin qui dicendo, con l’intento di spianarne la lettura, senza che ci si debba fermare continuamente davanti a nomi e perifrasi non immediatamente trasparenti, saremmo tentati di cominciare con girigogoli atti, prima di tutto, a mettere in luce dove non cercarla: non nel tempio di Zeus Trifilio dentro una stele d’oro sull’isola Panchaia; non in un prestigioso archivio storico; non…. Siamo certamente tutti d’accordo che basta così e ne avanza anche. Si trova come un foglietto manoscritto incollato su “un antichissimo uscio di rozzo legno, sopra il quale, dalla parte esterna in due cartelli sta scritto:
                        «Cella Seraphici Patris nostri Francisci»,
                        «Solve calceamenta de pedibus tuis, locus enim in quo stas, terra sancta est, Es 3,5».
            Per questo i religiosi hanno il lodevole costume di entratvi a piedi nudi(1)”.
            Un manufatto rozzo come tanti altri, che però serve a chiudere l’attuale varco d’accesso da un oratorio, che era in origine un “dormentorio” di frati, ad una cella, quasi per tre quarti scavata nella roccia, che fu abitata da Francesco di Assisi (alla quale ai suoi tempi “si doveva accedere dalla parte del fosso(1)”).
            Siamo in località Le Celle, presso Cortona: l’opera (riportata in nota), da cui abbiamo attinto e attingeremo ancora, tra gli scritti che l’hanno preceduta e quelli sorti in seguito (i successivi normalmente in parte dipendenti dai primi) pare essere sempre una buona fonte per la descrizione dei luoghi e degli eventi che ne sviluppano il titolo (già accarezzato dal Bernardi(2)).

            “Dalla parte interna dell’uscio medesimo si legge la seguente elegia:
«Jesus – Maria – Franciscus.»
Solve calcĕāmenta de pedibus tuis locum (sic)
in quo stas, terra sancta est.
Ad excolendam seraph. P. S. F. cellam,
viatores invitat Elegiuncola.
Solve profanatae vestigia turpia plantae
            Non est polluto terra premenda pede,
Cornigero intonuit tunc lingua Tonantis Apellae,
            Cerneres igniti cum sacra monstra rubi.
Siste viator iter, non te miracula poscunt
            Amramjdae, nec te mjstica flamma vocat.
Sed te Seraphicis ardentia limina flammis;
            turpia polluti tegmina solve pedis.
Turgida non strato laquearia Jaspide gent,
            Dedalea grandis non tenet arte Tholus.
Incola Bæthleæ non hic asceta cavernae
            inter Pantheras vixit et inter Hjdras.
Plusquam Dædaleo Cellam molimine, Gjro
            Parvam, Paupertas struxit, et arte rudem.
Incola Crŭcĭfixi decoratus stygmate Christi,
            et Paupertatis sponsus amorque fuit.
Ò quae Seraphico suspiria pectore fudit;
            qua prece, quaeis lacrjmis incaluere Lares!
Quoties sitiens, ut Cervus anhelat ad undas,
            e Salvatoris fontibus hausit aquas!
Ò quoties, dixit, circum stipate rosetis!
            cingite me malis, cingite me violis!
Parce, sat est Jesu, satis, est, dulcissime Jesu,
            parce, meum nimio languet amore latus,
Non ego, Maeoniae si sint mihi flumina linguae,
            et fluet e lăbris nectarĕ Hjbla|meis,
non ego dilecti, qui lilia pascitur inter
            oscula complexus dinumerare queam
Quos halant haec tecta sacris fateantur odores
            et non pancheis ruvida(!) cella plagis.
.  .  .  .  .  .  .  .dicens: cellam mirabe.  .  .  .  opes.
  .  .  .  .  .  .  .est incola quo.  .  .  .  .  .  .  .
Laus Deo(3)”.

            Abbiamo cercato di riprodurre il testo latino, quanto più fedelmente possibile, conforme a quello stampato, con qualche particolarità grafica aggiuntiva (più che altro, ricorrendo all’uso del corsivo e segnando, quando pareva necessario, la quantità di alcune sillabe) per poter fare le nostre annotazioni. Intanto va detto che non risulta che prima del P. Leopoldo nessuno se ne sia mai interessato: non era ancora stata scritta o non aveva dato nell’occhio? Noi ne tentammo una rilettura dal foglietto manoscritto originale oltre quarant’anni fa e la cosa rimase, come si dice, nel cassetto. Ritornandoci sopra dopo tanto tempo, ci sembrava che il testo stampato avrebbe potuto essere utile per un confronto, perché, se nel 1915 i tarli e lo stropiccio avevano già fatto i loro danni, sessantacinque anni abbondanti dopo quella data, quando la rileggemmo, c’era da aspettarsi un ulteriore deterioramento del documento: diciamo candidamente che lo stampato resta quello che è, ossia la prima divulgazione, per quanto ne sappiamo, rimasta a lungo unica, da non doversi assolutamente ignorare, ma niente di più.

            Cominciamo da un’osservazione che non ha che fare con la fedele lettura dello scritto: il vocabolo “calcĕāmenta” sarebbe stato tanto più chiaro di quel “tegmina” impiegato nell’ottavo verso, ma la seconda sillaba breve fra due lunghe rende il termine biblico non adatto alla metrica elegiaca.
            Il solecismo “locum”, come fosse un nominativo neutro, rimarcato nella pubblicazione con un “(sic)”, probabilmente non c’è: lo spazio eroso tra il mutilo “locu” e la “m” susseguente fa pensare, come deve essere, ad un originario “locus” seguito da una forma abbreviata di “enim”, tipo “êm”.
            Segue quindi la metodica ed errata sostituzione di “j” al posto di “y”; una volta la semivocale sostituisce la “i” vocalica, che, in altra occasione, è sostituita da “y”.
            L’ultimo piede del nono verso doveva presentare, anche prima della nostra trascrizione, un buco, colmato con “gent”, che è un giambo, mentre occorre uno spondeo: per esempio “fulgent”, con riferimento alla vivace coloritura del diaspro.
            Un altro buco all’inizio del secondo piede del quindicesimo verso è stato colmato con “Crŭcĭfixi”, che ha però una sillaba di troppo e quantità inaccettabili; forse si potrebbe pensare ad un “transfixi”.
            Capita spesso di trovare il dittongo “ae” al posto di “e” e viceversa: “quaeis”, per dire, non è stato evidentemente capito, mentre il corretto “queis”, monosillabo, è l’antica forma al posto del bisillabo “quibus” e, sempre per dire, “queis lacrymis” è un’espressione esclamativa che si trova in un lavoro di Girolamo Federico Borgno(4), che tradusse in esametri “I Sepolcri” del Foscolo.
            “Lăbris”, parola ancora che presenta un buco: se la prima sillaba si prende come lunga, niente da ridire: è possibile, ma la metrica ordinaria la prevede breve; al suo posto l’anapesto “labiis” non farebbe nessun problema.
            “Nectarĕ Hjbla|meis” è un non senso che va, più che evidentemente, sostituito con “nectar ut Hybla meis” con le relative spazieggiature.
            “Ruvida”: ancora un’ipotesi per colmare un altro buco, solo che in latino quella parola non esiste; optare per “vivida”?
            Quel non molto che è restato e trascritto dell’ultimo distico va decisamente abbastanza su per i peri.
(4. continua)
Note
(1) P. Leopoldo Da Cortona(*) de’ Min. Capp., Il primo Convento francescano, Firenze 1915, Stabilimento tipografico S. Giuseppe, pag. 85.
(*) Al secolo Agostino Andreani (1886-1948); uno dei fondatori della Provincia cappuccina del New Jersey.
(2) P. Filippo Bernardi da Firenze, Ragguagli, Manoscritto, 1704, pagg. 106-107.
(3) P. Leopoldo Da Cortona, o. c., pagg.86-87.
(4) Girolamo Federico Borgno, Sui Sepolcri, pag. 33.

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