LYDIA, l’omerica MEONIA

Panchea, l’isola che non c’è (?).

                        “E tu, Betlemme di Èfrata,
                        così piccola per essere fra i villaggi di Giuda,
                        da te uscirà per me
                        colui che deve essere il dominatore in Israele;
                        le sue origini sono dall’antichità,
                        dai giorni più remoti(1)”.

            Bisogna dire che Betlemme non soltanto, al dire del profeta, non è poi così tanto piccola, ma il solo suo nome ricorre ben cinquanta volte nella Bibbia.

            In particolare: a Betlemme Giacobbe seppellì Rachele, la moglie prediletta, madre di Giuseppe e Beniamino, alla cui nascita era morta di parto(2). Fu territorio della tribù di Giuda e passò in eredità ai figli di Zàbulon(3). Nel Vecchio Testamento, accanto a qualche episodio inquietante del libro dei Giudici (che, indipendentemente da Betlemme, è un libro che ne contiene anche altri, come la vicenda della figlia di Iefte), Betlemme è soprattutto e strettamente legata a Davide, alla sua ascendenza e alla sua discendenza: si vedano specialmente il libro di Rut(4), il Primo(5) e Secondo(6) di Samuele, il Primo delle Cronache(7). Nel Nuovo Testamento, in quanto città natale di Gesù, vi fa ampiamente riferimento Matteo nel suo Vangelo (cinque volte(8)), e poi due volte se ne parla nel Vangelo di Luca(9), mentre nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso che la cita durante la disputa con i Giudei sorta durante la festa delle Capanne(10).

            Verosimilmente, Betlemme non riceverebbe ulteriore rinomanza per altre significtive presenze, anche assai illustri, che siano già venute o potrebbero arrivare a stabilirvisi, oppure che da lì traggano origine; va però detto che ci sono personaggi, come Girolamo, che a Betlemme hanno vissuto più o meno a lungo e che hanno una statura propria e di spicco, la quale potrebbe benissimo essere stata la stessa anche con una diversa scelta residenziale, fermo sempre restando che le ipotesi non sono certezze. Si voleva dire che l’identificazione di un luogo mediante una persona o l’individuazione di una persona mediante un luogo ad essa particolarmente legato non è sempre agevole: sono certi particolari descrittivi che inducono ad arrivare a scorgere la correlazione che intercorre tra le due distinte realtà.

            Ad un certo punto il colto e immaginifico anonimo Autore della “elegiuncola” (prima o poi vedrete che la pubblichiamo!) lamenta di essere impari al compito laudativo che si è prefisso, anche perché ha la consapevolezza che da lui non sgorga, quasi fosse un fiume, l’eloquenza meonia (ossia, come chiariremo, una vivida vena di altissima poesia). Qui è proprio il caso di sperare che sia un qualche gran personaggio, (magari un “letteratone(11)”, come avrebbe potuto supporre don Abbondio), ad aver fatto acquistare una rinomanza alla Meonia, perché altrimenti, nemmeno a volere, potrebbe venire in mente a qualcuno quella parte di mondo. Ebbene, con Meonia Omero designa l’antica Lidia, una regione della Turchia asiatica, che secondo qualche tradizione sarebbe stata la patria del poeta. Da qui hanno origine espressioni come: “il meonio cantore”, cioè Omero, impiegata dal Leopardi, Sopra il monumento di Dante, dove scrive:
                        “colui per lo cui verso (Dante)
                        il meonio cantor (Omero) non è più solo”;

oppure: “la meonia cetra”, a indicare la poesia omerica o il poeta stesso; ed anche, osiamo aggiungere, il lamento elegiaco del nostro Autore:

                        “Mæoniæ si sint mihi flumina linguæ”,

(ma, ahimè per lui e per noi, quei gonfi fiumi, né placidi né impetuosi, non ce li ha!).

            Altro motivo di cruccio e di rimpianto è, sempre per il nostro Autore, quello di non possedere quella ineffabile dolcezza comunicativa, paragonabile a miele pregiato e sopraffino, quale appunto la trattazione del tema l’esigerebbe. Ed ecco spuntare Ibla, un posto reale, come Betlemme e la Meonia, solo che con questo nome vengono archeologicamente congetturate località diverse.

            Una sola Ibla, o meglio una sua diretta discendente, è stata fino a oggi con certezza identificata: si tratta di Megara Iblea, così chiamata, secondo la tradizione, dai Greci di Megara in onore di Iblone, che concesse la terra per stabilirvi la loro colonia attica; i suoi resti sono stati rinvenuti nelle immediate vicinanze di Augusta. Secondo alcune fonti Megara Iblea si chiamerebbe così non per via di Iblone, ma piuttosto perché sorta sulle rovine di un’antica Ibla (Megara Iblea venne rasa al suolo una prima volta dagli antichi Siracusani nell’anno 481 a. C., poi da questi ricostruita sotto il regno di Timoleonte e definitivamente distrutta da Marco Claudio Marcello nell’anno 212 a. C.). Da Ibla deriva il nome dei monti Iblei (Ibleo, ῾Υβλαῖος, Hyblæus), rilievi montuosi siti sul lato sud-orientale dell’isola, e del miele ibleo (tanto noto nell’antichità, che in tali monti si produceva allora e si produce tutt’oggi).

            Scrive Seneca, Œdipus, (Creonte durante la discesa di Tiresia all’Ade):
                        «Non tot caducas frondes Eryx,
                        nec vere flores Hybla tot medio creat,
                        cum examen orto nectitur densum globo».
                        «Non fa spuntare altrettante foglie Erice,
                        né altrettanti fiori nel pieno della primavera crea l’Ibla,
                        quando un denso sciame d’api avvolge in un fitto globo». (Giancarlo Giardina)

            “A spremerne il sugo(12)”, si verrebbe a dire che, quand’anche una somma poesia modulasse i suoi versi sulla corda d’una dolcezza infinita, non si riuscirebbe mai neppure a tratteggiare vagamente l’intensità e l’armonia misteriosa di certi mistici profumi ed aromi, come quelli che olezzano in un luogo tanto lontano e tanto diverso dall’isola Panchea. Già, perché Panchea o Pancaia (Παγχαΐα) è un’isola, non ben identificata e forse fittizia, menzionata per la prima volta dal filosofo greco Evemero, alla fine del IV secolo a. C., che la descrive, insieme al suo viaggio nella sua opera principale, la Storia sacra (Ἱερὰ ἀναγραφή), di cui sopravvivono oggi solo frammenti e alcune parafrasi.

            I frammenti conservati dagli autori successivi, come lo storico greco Diodoro Siculo e lo scrittore cristiano del IV secolo Eusebio di Cesarea, parlano di Pancaia come di un’isola paradisiaca situata nell’Oceano Indiano, con una forma di governo ispirata a principi razionali. Evemero racconta che, nel suo viaggio, giunse nell’arcipelago, di cui la Pancaia era una delle isole, viaggiando attraverso il Mar Rosso e intorno alla Penisola arabica; nel tempio dell’isola dedicato a Zeus Trifilio, posto ai piedi di un monte elevato chiamato Olimpo Trifilio (cioè delle tre tribù originarie che popolarono l’isola: Panchei, Oceanidi e Doi), il filosofo scoprì una stele d’oro, che conteneva un registro delle nascite e delle morti degli dèi e delle loro imprese, avendo così la prova che essi erano solo figure storiche, caricate di leggende e, finalmente, mitizzate.

            Il luogo descritto da Evemero potrebbe assomigliare all’isola di Socotra (Yemen), anche se è improbabile che Pancaia sia interamente un luogo reale; potrebbe invece essere un espediente letterario ideato dall’Autore. In molte parti la sua descrizione è simile all’Atlantide di Platone. Resta il fatto che l’isola veniva descritta come particolarmente ricca di metalli preziosi, incenso e mirra ed è sotto questo particolare aspetto che essa entra, sotto forma di aggettivo locativo, nella solita elegia, costituendo un termine di paragone, umanamente eccezionale, ma più che superato nella trascendente sfera dell’estasi.

(3. continua)

Note
  (1) Mi 5,1
  (2) Gen 35,19; 48,7
  (3) Gs 15,59; 19,15
  (4) Rt 1,1-2.19.22; 2,4; 4,11
  (5) 1Sam 16,4; 17,12.15; 20,6.28
  (6) 2Sam 2,32; 21,19; 23,14-16.24
  (7) 1Cr 11,16-18
  (8) Mt 2,1.5-6.8.16
  (9) Lc 2,4.15
(10) Gv 7,42
(11) Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, VIII, 1
(12) o. c., XXV, 45

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