Francesca da Rimini dovette essere bella: ne è convinta lei e dovette pensarla così Paolo:

«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

  prese costui della bella persona

  che mi fu tolta;…»

Anche Paolo dovette essere bello, o, almeno, così parve a Francesca:

«Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

  mi prese del costui piacer sì forte,

  che, come vedi, ancor non m’abbandona.»

Non si tratta della bellezza estasiante come può esserla quella delle stelle. Quella di una persona è una bellezza affascinante, fatta di armonia di tratti, di simpatia; secondo i casi, espressione di grazia o di forza, di gentilezza, di signorilità, di affabilità, di calore, di una quantità di attributi, spesso anche o soltanto soggettivi, ma che non prescinde mai dalla capacità di suscitare la passione oltre ogni altra pur ragionevole considerazione.

E c’è la bellezza tutta speciale della poesia, che non troverà mai una descrizione esauriente e definitiva della sua natura, tanto meno una definizione, per la gioia e il tormento dei filosofi d’ogni tempo: τί ἐστι τὸ καλόν; (1)

Però è possibile riconoscere quella bellezza sublime quando si manifesta: l’incontro di Dante con Paolo e Francesca ne è un insuperabile esempio.

Sono versi che vanno letti, magari imparati a memoria, in modo da poterci tornar sopra senza bisogno di averli scritti sotto gli occhi.

Il turbine eterno esalta la leggerezza dei due spiriti dannati; il desiderio di ascoltarli è pari al loro “disio” di essere ascoltati; “anime affannate” e senza pace incapaci di pregare, ma capaci di sperare l’altrui pace e di sognare quella pace che perfino le cose possono attingere dopo la loro corsa:

«Siede la terra dove nata fui

    su la marina dove ’l Po discende

    per aver pace co’ seguaci sui;

che non sanno perdonare

  Caina attende chi a vita ci spense»

e ricordano la loro vita terrena come una fiammella spenta da una violenta ventata, anticipatrice del castigo infernale.

Siamo nella schiera di Didone, vedova di Sicheo, che, a suo tempo, aveva chiesto a Enea, di cui si era innamorata, di raccontare la caduta di Troia. Il fuggitivo avrebbe voluto potersi sottrarre alla rievocazione:

Infandum, regina, jubes renovare dolorem,

magari per l’ora tarda:

… Et jam nox umida cælo

præcipitat; suadentque cadentia sidera somnos.

Tuttavia:

Sed si tantus amor casus cognoscere nostros,… (2)

l’eroe darà voce e sospiro ai mesti ricordi.

Ecco, a proposito, un esempio di citazione da parte di Dante in riferimento all’Eneide di Virgilio (si ricordi la venerazione di cui Dante lo circonda: “Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore;” (3)), ossia Francesca che dice:

«Ma s’a conoscer la prima radice

    del nostro amor tu hai cotanto affetto,…»

Parlando tra le lacrime, Francesca rievoca “la prima radice”, mentre Paolo non ha voce ed è tutto nel suo pianto. La pietà del Poeta, scorta da Francesca all’inizio della sua narrazione (“poi c’hai pietà del nostro mal perverso.”) giunge fino allo svenimento:

  «… sì, che di pietade

  io venni men così com’io morisse;

e caddi come corpo morto cade.»

Vorremmo poter dire che la sublimità della poesia supera le certezze razionali e quasi si erge, con una sua potente autonomia, oltre l’insindacabile giudizio di Dio.

Un dannato può essere oggetto di pietà e può sentire simpatia (“O animal grazioso e benigno”)? E se il peccato si è concretizzato in una unione adulterina, il contrappasso non esigerebbe piuttosto una separazione assoluta? Eppure Paolo è “questi, che mai da me non fia diviso,”…

Finisce che l’arte assolve in parte le premesse, dove Dio deve condannare la consumazione dell’atto e le sue conseguenze; quasi esalta e, intanto, riprova; ma non è ribellione: è la sublimazione di quei pensieri o, piuttosto, di quei sentimenti che ci inquietano, quando velatamente s’insinuano e quando violentemente ci scuotono. “E s’iddu muoro e vaju ’m paradisu, si nun ce truovo a” quella o quelle persone che sono state la ragione della mia vita, che beatitudine sarebbe la mia? E se tutto si colloca dentro un trionfo eterno di carità, non è un po’ diluito, per così dire, quell’affetto così unitivo e un po’ esclusivo, quando c’è, che si realizza specialmente nei rapporti a due quotidiani? I miei insegnanti, che non saranno stati stinchi di santo e neppure eccezionali pedagoghi come Brunetto Latini, tanto da considerarmi e chiamarmi “O figliuol mio”, ai quali però devo in gran parte quel poco che so fare e anche queste ineleganti righe: se non sono tra i beati comprensori, non saranno poi tanto lusingati se provo a dire di loro

«ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,

    la cara e buona immagine paterna

    di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m’insegnavate come l’uom s’etterna:…» (4)

Poste così, sono questioni che non hanno risposta sul piano pratico e ne trovano una, si fa per dire, sul piano della speculazione filosofica o teologica. La poesia va oltre: non spiega, non semplifica, non elimina e non armonizza; prende la totalità dell’uomo, gli lascia spalancata la dimensione della fede che spera e accetta; lo invita a sognare una redenzione del bello, di tutto il bello, come in una sorta di cosmica apocatastasi.

Note

Tutte le citazioni, salvo quanto segnalato sotto:

Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto V,76-142

(1) Cos’è il bello?

(2) P. Vergilius M., Æneis, Liber II,3.8-10

“Tu mi comandi, regina, di rinnovare un indicibile dolore”.

“E già la rugiada notturna dal cielo

cade giù; e le stelle al tramonto invitano al sonno”.

“Ma s’a conoscer le nostre disavventure tu hai cotanto affetto,”…

(3) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I,85

(4) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XV,31.82-85

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