L’epiteto e il sostantivo

            “Chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna che sia disposto a prendersi del baggiano in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere”. Succedeva così nel XVII secolo e a Renzo quell’usanza non andava punto a genio: non ci è venuta la curiosità di indagare come le cose siano poi andate in seguito.

            Continuiamo a leggere, dopo ben ventuno capitoli de I Promessi Sposi, da cui vengono le citazioni: “Quando poi i nuovi padroni vennero a stare sul loro (un filatoio, situato quasi sulle porte di Bergamo), Lucia, che lì non era aspettata per nulla, non solo non andò soggetta a critiche, ma si può dire che non dispiacque; e Renzo venne a risapere che s’era detto da più d’uno: – avete veduto quella bella baggiana che c’è venuta? – L’epiteto faceva passare il sostantivo”. Perché, a dire il vero, l’aggettivo ‘baggiano’, – ossia ‘minchione’, come si legge nel Dizionario del Petrocchi, – molto lusinghiero non è e tanto meno se viene usato come sostantivo.

            L’intervento di una qualificazione estetica, come ‘bello’, senza modificare essenzialmente il senso principale del soggetto, può distrarre quanto basta ad attenuarne la portata. Può però capitare che un aggettivo non solo non abbia da modificare nulla, ma che addirittura serva ad esplicitare quello che è già contenuto in certo modo nel nome di cui è epiteto: questo lo sanno fare la contemplazione e la poesia (che poi sono parenti fra di loro) e lo fanno, come quando, per dire, si guarda o si pensa alle stelle.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

            San Francesco, nel Cantico di frate Sole, offre questo splendido esempio di uso dell’aggettivo ‘bello’, adoperato in modo che ‘belle’ faccia rima con ‘stelle’ e venga dopo altri due aggettivi che ne dicono, rispettivamente, la lucentezza e la brillantezza che richiama quella delle pietre preziose; ‘belle’ è una conclusione che comprende quanto già accarezzato e lo supera, aprendosi ad una ammirazione estatica, sconfinata.

            Prima che Dante incontri Virgilio e intraprenda il suo mistico viaggio, ci sono momenti in cui l’animo del Poeta prova forti sentimenti di smarrimento, di paura, di tristezza,… ma anche di speranza, come quella espressa nei seguenti versi:

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n su con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;

            Si credeva nel Medio Evo che l’opera del quarto giorno della creazione fosse stata compiuta all’inizio della primavera, il 25 marzo, quando il sole entra nella costellazione dell’Ariete. Tanti secoli dopo, a primavera da poco iniziata, l’otto aprile del 1300, Dante, cercando una via che lo districhi da quella selva oscura, in cui si è ritrovato, osserva la luce del sole che si alza verso il mezzogiorno; sa che “il ministro maggior de la natura” si trova nel segno di quelle stesse stelle fisse che erano con lui all’atto della creazione ma, ovviamente, in quel momento non può vederle, abbagliato dalla luce del sole; però le ha viste e ammirate già tante volte; ha contemplato assorto quelle cose mosse dall’amor divino; sono diventate l’appuntamento fisso che ritma il suo passaggio da uno stato all’altro della vita dell’oltretomba e il ritorno nel mondo: qui, come prima nel Cantico, si ripropone la rima di ‘belle’ con ‘stelle’, ma senza altri epiteti, quasi si volesse suscitare la suggestione che coglie ogni forma di bello per rapporto con la bellezza del cielo stellato.

            Le anime dannate hanno come una nostalgia della vita terrena, in confronto con la loro situazione di “eterno dolore”; magari solo di qualche momento della vita trascorsa, che non è stata sempre serena, ma ha pur sempre conosciuto almeno fugaci sprazzi di incanto. Vogliono illudersi che al mondo si parli ancora di loro, in modo da avere, se si può dire, una sorta di immortalità nel tempo.

            Tre anime perse fiorentine di sodomiti, Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci, dopo aver parlato con il Poeta della decadenza morale di Firenze, vorranno, anche loro, che di loro si discorra ancora fra i vivi:

«… Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui”,
fa’ che di noi a la gente favelle».

            Questa volta ‘belle’ non fa da rima con ‘stelle’, ma l’aggettivo è come incollato al nome, provocando una musicalità brillante, mentre dà risalto al contrasto, forse più malinconico che tragico, con la cupa bruttura dei luoghi bui infernali.

            Ne I doveri dell’Uomo Giuseppe Mazzini, – dopo aver detto che tentare di dimostrare l’esistenza di Dio “sembrerebbe una bestemmia” e provarlo “una follia” -, senza usare epiteti per le stelle, trova, non solo, ma in primo luogo, “davanti ad una notte stellata” una testimonianza inoppugnabile per potere affermare: “Dio esiste”; lo può negare solo “colui che è grandemente infelice o grandemente colpevole”.

fra’ Guglielmo Maria


Note:
Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cfr. Capp. XVII e XXXVIII
San Francesco d’Assisi, Cantico di frate Sole
Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, cfr. Canti I,37-40 e XVI,82-85

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