L’INTENSITà DEL SOGNO, LA FORZA DEL RICORDO

Salice piangente

“Mia madre aveva una povera ancella,… cantava
un canzone: la canzon del Salice(*)”.

            Nella sua relativa brevità(1) (soltanto nove versetti) il Salmo 137 si divide naturalmente in tre parti, costituite, rispettivamente, dai vv. 1-4; 5-6; 7-9. Dell’ultima parte (vv. 7-9) ci siamo già precedentemente occupati, considerandoli come una prosecuzione ed esasperazione delle imprecazioni presenti in alcuni passi delle Lamentazioni. Adesso vogliamo leggere e commentare le prime righe di quel salmo, in una traduzione, quanto più possibile, letterale.

            «Sui fiumi di Babilonia, là sedemmo, anche piangemmo: nel nostro ricordare Sion». Babilonia è la terra dei fiumi Tigri e Eufrate, con i loro canali; la localizzazione dell’esordio è la naturale trasposizione in parole dell’immagine visiva abitualmente presente alla mente di chi, per qualsiasi motivo, lì ci si trova a vivere. Si può credere che sedersi sulla riva dei fiumi fosse piuttosto un fatto raro, forse ritualizzato, – per un momento di compianto comunitario, in mezzo alle costrizioni quotidiane della deportazione –; come si può anche credere che il pianto, magari con un nodo alla gola, insieme a un masticare amaro, fossero sentimenti pungenti e intense passioni vissute ordinariamente e prevalentemente nel proprio intimo personale, prima ancora di venire esternate. Come sia stato, quel sedere a vedere il luccichio della corrente dell’acqua che passa, – perché deve andare,… – con gli occhi annebbiati dalle lacrime, che non dovrebbero scorrere…; con gli altri lì radunati a formare una moltitudine muta e dolente: tanto basta da solo per creare l’atmosfera d’una malinconia cosmica, senza tempo, prima e oltre quale ne sia la causa, il motivo reale, o anche soltanto la suggestione fantastica che l’ha suscitata. Quella presenza collettiva, già evocata dai plurali ‘sedemmo’ e ‘piangemmo’, assume subito la fisionomia di una comunità unita, avvezza a guardare verso l’alto piuttosto che lontano, che possiede un ricordo e soffre un rimpianto preciso e condiviso: Sion, la santa montagna, altura stupenda,che è la gioia di tutta la terra(2).

            «Sopra i salici(3) nel mezzo di essa appendemmo le nostre cetre(4)». Ancora un elemento paesaggistico sulla diffusa presenza locale di quella varietà arborea, nota come Salix babylonica, comunemente detta Salice piangente, che alligna in terreni umidi, poco drenanti o anche paludosi. In questo testo ‘salici’ è un plurale assoluto, adoperato esclusivamente in questo versetto e che suppone un singolare non presente nella Bibbia, in uso però nel neoebraico: ‘ărāvā́h. Il pendere dei rami di quelle piante già dà l’idea di un ripiegamento su se stessi e rende agevole poterci appendere un qualsiasi oggetto. La forma verbale ‘appendemmo’ è ancora una particolarità, un hapax legomenon, il cui oggetto (altro hapax, in questa forma plurale con il suffisso ‘nostre’) sono le ‘cetre’, con quella loro forma tipica nella strumentazione musicale ebraica, che può richiamare il perimetro del lago di Genesaret (yām-kinnèreth). La musica tace per mancanza di un barlume di speranza: fu lungo quell’esilio!… Cetre appese e rimaste lì da chissà quanto tempo; o anche prese e riportate, come in una periodica processione funebre, dove il suono è quello strascicato dei passi e va a svanire nel solito lento mormorio ovattato dell’acqua corrente, misto talvolta a un frusciare di fronde.

            Un gesto simbolico, una decisione di silenzio in risposta ad una domanda curiosa o provocatoria, fatta lì, sul momento oppure ripetuta con insistenza beffarda: «Poiché là ci chiesero i nostri deportanti parole di canto e i nostri oppressori (hapax) gioia: “Cantate a noi dal canto di Sion”». Quella richiesta, quale che ne fosse il motivo, non poteva essere accolta, prima di tutto perché di gioia proprio non ce n’era; inoltre, l’esibizione del repertorio canoro di Sion, – intesa forse nell’intenzione dei dominatori come una manifestazione del folclore giudaico –, in realtà, proprio per l’esplicita menzione di Sion, nella mente degli esuli rimandava subito ai canti tipici, come quelli della salita al tempio, della celebrazione pasquale, di supplica, di ringraziamento,… decisamente escludendo, se e quante ce ne fossero state, le canzoni ‘leggere’ d’amore o di trastullo.

            «Come canteremo (hapax) il canto di YHWH su terra dell’estero?». C’è un lembo di terra, nemmeno troppo esteso, ed è la Terra promessa ad Abramo, Isacco e Giacobbe; tutto il resto del mondo è terra straniera: non solo, quindi, perché Babilonia vuol dire esilio – con tutta la durezza che accompagna quella condizione e inevitabilmente ne consegue –, ma perché né lì né in nessun altra parte e in nessuno stato di cose, fuori di Sion, si possono cantare i canti di YHWH. Non si tratta neppure di una visione miope, come quella pagana, che legava un popolo alle sue divinità nazionali e viceversa, come, per dire, in una sorta di spartizione di potere e di reciproca non ingerenza; YHWH è uno solo(5), altrimenti, tra l’altro, neppure avrebbe senso implorarlo: «Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo, | rinnova i nostri giorni come in antico(6)». È bensì tutto il mondo che dovrà venire e finalmente verrà a Sion: «Così dice il Signore degli eserciti: Anche popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l’un l’altro: “Su, andiamo a supplicare il Signore, a trovare il Signore degli eserciti. Anch’io voglio venire”. Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore(7)».

             Giungiamo così alla parte centrale del salmo con un primo vistoso cambiamento di stile e di prospettiva. Il nome Sion ha determinato immediatamente un accorato ricordo del nome del Signore; poi, come illuminata da un lampo improvviso, è riemersa l’immagine squallida e rovinosa della profanazione e della completa distruzione: ultima allucinante impressione rimasta scolpita al momento del forzato abbandono. Allora è scattato qualcosa, come fosse la voglia di distogliere il pensiero, per un’apatica immersione nella quiete indifferente di un momento vuoto di pensieri e di emozioni, all’ombra dei salici,… ma non deve accadere: un subito riscuotersi, come se anche solo un’occasionale distrazione fosse una grave colpa, un accantonamento, se non addirittura la perdita della propria personalità, nata e modellata su un’appartenenza individuante e qualificante. Si passa così allo stile imprecatorio: «Se dimenticherò te, Gerusalemme, dimenticherai [me], mio lato destro». L’orizzonte non è più la linea di confine tra il cielo e il paesaggio a perdita d’occhio; si restringe a guardare il proprio corpo come è ora e come dovrebbe diventare, invalido, quale castigo per un sopravvenuto inammissibile oblio: un segno, una menomazione, un marchio indelebile a supporto futuro di un ricordo necessario, come la circoncisione costituisce il segno fisico dell’alleanza.

            «Si attaccherà la mia lingua al mio palato, se non ricorderò te (hapax), se non farò salire Gerusalemme a capo della mia gioia». Per esprimersi la gioia coinvolge un po’ tutto il corpo: più è grande e piena, più sbraccia, saltella, si dondola e, specialmente, emette suoni, gridolini, esclamazioni. La gioia delle gioie, la gioia di un innamoramento passionale e struggente per l’esule è Gerusalemme: se dovesse capitare che fosse trascurata o anche solo posposta, allora la parola non avrebbe più senso e la lingua si incolli pure al palato, lasciando adito ad un mugolio scomposto e inespressivo.

_______________

Note
(*) Cfr. Arrigo Boito, Otello (da Shakespeare), musica di Giuseppe Verdi, atto IV.
(1) Il Sal 117 comprende due versetti; il Sal 119 consta di 176 versetti, distribuiti in 22 strofe alfabetiche.
(2) Cfr. Sal 48,2-3.
(3) ‘ărāvî́m.
(4) kinnôrốth.
(5) YHWH ’ḤDH (cfr. Dt 6,4).
(6) Lam 5,21.
(7) Zc 8,20-22.

Come dire la Pasqua

Come dire la Pasqua? Nei paesi dell’oriente cris6ano, da questa notte chiunque s’incontri per la strada si scambia un saluto che è soprattutto un annuncio

Leggi »