Nabucco

Il pianto di uno e il coro di tutti.

            L’opera lirica ha una sua struttura e le sue esigenze, che variano solo un po’ da paese a paese.
            Normalmente c’è sempre in ballo un intreccio amoroso che spesso finisce male. Gilda si sostituisce al duca di Mantova, di cui si è perdutamente innamorata, e muore assassinata da Sparafucile: “io vo’ per la sua | gettar la mia vita”. La Traviata, Violetta Valéry, si sacrifica a favore della sorella del suo Alfredo, la “giovine | sì bella e pura”, e muore di mal sottile. Dello stesso male muore Lucia, chiamata Mimì, “gaia fioraia”, e il sipario si chiude con il grido di Rodolfo che invoca il suo nome e singhiozza. Floria Tosca si getta da Castel Sant’Angelo dopo la fucilazione del suo Mario, imprecando: “O Scarpia, avanti a Dio!”. Aida e Radames finiscono insieme, rinchiusi vivi nei sotterranei del tempio di Vulcano. Desdemona viene soffocata per gelosia da Otello, che poi si suicida…. Non sempre, ma molto spesso, c’è di mezzo un lui (Iago, ad esempio) o una lei (Amneris, per dire), rivali in amore, invidiosi, accecati dalla passione o dall’odio.

            Le scene si animano con cori e balletti, si susseguono dopo un intermezzo sinfonico e così via: qui il gusto locale e il genio personale hanno un più ampio e diversificato spazio.
            Qualche volta i difficili e contrastati amori, quasi al limite dell’impossibile, hanno un esito lieto, non senza però aver lasciato morti sul terreno. Calaf impalmerà Turandot, ma intanto hanno perso la vita l’ultimo pretendente alla mano di lei, il principe di Persia, e la “povera” Liù, che si suiciderà per amore appunto di Calaf, temendo di cedere sotto tortura, “perché egli vinca ancora”; senza inveire, anzi predicendo la metamorfosi dell’algida principessa: “Tu, che di gel sei cinta, | da tanta fiamma vinta, | l’amerai anche tu(1).

            Anche Nabucco, (su libretto di Temistocle Solera e musica di Giuseppe Verdi, andato in scena al teatro alla Scala il 9 marzo 1842), appartiene a questa seconda categoria: un amore difficile tra due appartenenti a popoli in lotta – lui, Ismaele, nipote di Sedecia, ultimo re di Giuda, lei, Fenena(2), figlia di Nabucodonosor II, re di Babilonia, – coronato di vittoria, però accompagnato dal suicidio di Abigaille, figlia illegittima di Nabucco, rivale in amore della sorella e usurpatrice della corona.

            Prima di andare oltre, riportiamo una breve traccia della trama dell’Opera in quattro Parti, insieme ad un cenno sul momento storico della prima rappresentazione.

            Nabucco re di Babilonia, conquista la città di Gerusalemme. La figlia Fenena è ostaggio del Gran Pontefice Zaccaria e potrebbe essere oggetto di ricatto, ma Ismaele vanifica il progetto, cede al suo amore per lei e la libera. Successivamente, in Babilonia: Fenena, con la sua conversione, appartiene ormai al popolo ebraico; Abigaille, istigata dal Gran Sacerdote di Belo e apprendendo la notizia (falsa) della morte in guerra del re, ne approfitta per salire al trono. Ma Nabucco torna, di nuovo si insedia e, in preda al delirio di grandezza, si paragona a un dio; un fulmine lo colpisce, lo lascia senza senno e gli fa cadere dal capo la corona. Abigaille prontamente la raccoglie, fa rinchiudere il padre e condanna a morte Fenena e tutto il popolo ebraico. Nabucco riacquisterà provvidenzialmente la ragione e con l’aiuto del fedele Abdallo(3), riprende il trono, libera Fenena e gli ebrei, e si converte al “Dio di Giuda”. Abigaille si toglie la vita avvelenandosi.

            Oltre l’invenzione teatrale, lo sfondo storico della presa di Gerusalemme e della deportazione è mutuato dalla narrazione biblica del secondo libro dei Re e del secondo delle Cronache, mentre la figura di Nabucco è fortemente caratterizzata sulla base del libro di Daniele.

            Anche se, dopo il Congresso di Vienna, la restaurazione dell’assolutismo provocò vari sussulti in diversi luoghi, – tutti finiti nella repressione –, restando nei confini dell’Italia, il momento di Nabucco si colloca tra i moti risorgimentali delle Società segrete e le Cinque Giornate di Milano. Il popolo minuto, in maggioranza contadino, non è in grado di percepire le fondamentali istanze e le utopie delle classi più colte e più abbienti, ma il senso di oppressione, specialmente nella parte d’Italia sotto la dominazione austriaca, va radicandosi e allargandosi.

            Nabucco ebbe successo, perché meritava successo (con cinquantasette repliche e con buona pace della critica canzonatoria parigina dell’epoca), ma le anche circostanze ebbero la loro non trascurabile parte. I versi iniziali del coro degli ebrei schiavi in Babilonia, immaginato dal Solera (“Va’, pensiero”), furono “il bell’accidente”, – per dirla con le parole del dottor Azzeccagarbugli, ma non con la sua affettata e un po’ furbesca piaggeria, – che smossero Verdi dalla malinconia dei lutti patiti e dall’amarezza dell’insuccesso, in certa misura ad essi connesso, della sua seconda opera, “Un giorno di regno”.

            Quel senso di nostalgia che entra in tutte le fibre, commuove, piange, prega, spera e si spenge nel pianissimo di un prolungato sussurro, quasi fosse la continuazione di quel “Va’,” sotto voce iniziale…: il pensiero va, sta volando, si allontana e scompare, mentre la pesantezza accasciata del corpo resta immobile, china, muta…. Questa magia della “arpa d’or dei fatidici vati”, che dovrebbe mettersi a vibrare da sola, memore e ispirata, ha stregato chi compone e chi ascolta e, in modi diversi e con differenti sensibilità, il genio ha elaborato e il pubblico, l’orchestra, chi canta, chi dirige, hanno avvertito un’appartenenza comune, un sogno sovrano di indipendenza, di libertà: “Va’, pensiero” non è tutto il “Nabucco”, ma “Nabucco” non esisterebbe senza “Va’, pensiero”.

            Fonte del testo del celebre coro (il salice, l’arpa muta) è essenzialmente quella prima parte del Salmo 137 (136), del quale si parlò e che riportiamo qui sotto nella versione CEI dei 1974, senz’altro migliore della successiva, dal punto di vista stilistico.

                        Sui fiumi di Babilonia,
                           là sedevamo piangendo
                           al ricordo di Sion.
                        Ai salici di quella terra
                           appendemmo le nostre cetre.
                        Là ci chiedevano parole di canto
                           coloro che ci avevano deportato,
                           canzoni di gioia, i nostri oppressori:
                           «Cantateci i canti di Sion!».
                        Come cantare i canti del Signore
                           in terra straniera?
(continua)

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Note
(1) Altro diverso caso: Minnie, la fanciulla del West; riuscirà ad andarsene con il suo Dick Johnson, ormai veramente “libero…, sopra una nuova via di redenzione”. Il dramma, senza vittime, si è consumato quando lei ha scommesso a poker la sua vita con quella di Dick, giocandosela contro il non ricambiato sceriffo, barando con la forza della disperazione.
(2) “Fenena”, nome preso dal primo libro di Samuele (1Sam 1,2.4), che i LXX trascrivono come Φεννανα e la Vulgata in “Phenenna”. È la seconda moglie di Elkanà, padre del profeta Samuele; in italiano una migliore trascrizione di quel nome è “Peninnà”, mentre la precisa traslitterazione dall’ebraico è «Peninnā́h»: significa “Perla”.
(3) “Abdallo”, altro nome inconsueto, si può ricondurre a “Abdeèl” (cfr. Ger 36,26), la cui traslitterazione dall’ebraico è «‘avde’ḗl»: significa “Servo di Dio”. Nota che «’» sta per la consonante “aleph” e «‘» per “ayin”.
            A proposito “Geova”, quale Nome proprio di Dio e così invocato in quest’Opera: la vocalizzazione masoretica del tetragramma YHWH, ossia «YeHoWā́H», è un modo per ricordarne l’impronunciabilità (in ossequio all’interpretazione stretta del Decalogo e al 7° dei 613 precetti, – che è anche il 63° tra i 365 negativi –, secondo Maimonide) e indicare la sostituzione che deve esserne fatta con «’Ădhonā́y», ossia “Signore”. A questo scopo, ad esempio, il libro di preghiere di rito sefardita dilata la “H” finale di «YeHoWā́H» e ci inserisce la quattro consonanti di «’Ădhonā́y», cioè «’DNY», e subito di seguito indica la rispettiva sostituzione: Y’HDWNHY, intendendosi che alle consonanti di posto dispari vanno sostituite quelle di posto pari. Resta da precisare che in quel rito neppure più «’Ădhonā́y» viene letto, ma al suo posto si dice solo «Haššḗm», cioè “Il-Nome”.

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