PRANZO E PRANZI IN UN CELEBRE “PALAZZOTTO”

Ambrosia e impiccarli

            Un bel po’ del Capitolo V de I Promessi Sposi, (a esser pignoli: circa il sessanta per cento) indugia volutamente a narrare di un rumoroso desinare nel palazzotto di don Rodrigo. Veniamo a sapere che oltre al padron di casa ci sono un suo degno cugino, il conte Attilio; il signor Podestà, di cui quel benedetto anonimo non dice il nome nemmeno ricorrendo a prudenziali circonlocuzioni; il dottor Azzecca-garbugli, che non si deve chiamare così e che, però, tutti chiamano in quel modo, a tal segno che Agnese, e non solo lei, il vero nome nemmeno se lo ricordano più; due altri convitati oscuri, “che non facevano altro che mangiare”. Sappiamo come erano disposti a tavola, una tavola rettangolare, par di capire: seduti su un lato lungo don Rodrigo e il conte Attilio alla sua destra; sul lato a sinistra il Podestà; in faccia a lui l’Azzecca-garbugli, in cappa nera; davanti ai cugini i due illustri sconosciuti. Cosa mangiassero non lo sappiamo, ma doveva essere cucina di tutto rispetto, quanto basta per poter cantare solennemente vittoria perfino su “le cene di Eliogabalo”: “censui, et in eam ivi sententiam”, declama il dottore e non si può certo discutere il parere di una simile autorità. Del vino, almeno di quello di “un certo fiasco” per un brindisi in onore del conte-duca, siamo edotti che “è l’Olivares de’ vini” e “che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni” del re di Spagna.

            Bisogna forse ricordare che c’è anche un’altra presenza, di uno non invitato e che non si sarebbe mai voluto avere tra i piedi; sopportato per ipocrita cortesia e gratificato di ruvide apostrofi: il padre Cristoforo di Pescarenico (“di” e non “da”; di Pescarenico per ora e ancora per poco, perché poi il suo intrepido Provinciale lo spedirà a Rimini, dove il nostro rimarrà fino a quando andrà ad assistere gli appestati nel lazzeretto di Milano e a morirci di contagio).

            L’anticamera che il frate deve fare prima di trovarsi a quattr’occhi con don Rodrigo dà modo di essere informati su “quei, se si può dire, discorsi” fatti a tavola: principiando da un cruciale problema di regole della cavalleria, tirando in ballo “l’autorità del Tasso”, coinvolgendo malignamente l’indesiderato ospite,… si arriva, con “ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova”, a ribadire il principio farisaico della doppia morale, quella “di giusto peso sul pulpito”, ma che “non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca” e quella fuori di chiesa.

            Lasciato perdere lo spinoso problema senza concluder nulla, il tono si solleva alquanto, andando a toccare questioni di alta politica e, propriamente, la lotta tra Francia e Spagna per la successione al ducato di Mantova. Supino servilismo nei confronti della dominazione spagnola mescolato alla saccenteria presuntuosa di chi si illude di contar qualcosa, basandosi sulla personale conoscenza di cose riservate e importanti, che tutti sanno o che importanti non sono, si concludono con un solenne brindisi in onore del conte-duca, ossia di Don Gaspar de Guzmàn, conte di Olivares e duca di San Lucar, come già sopra si accennava, il quale fu ritenuto una “gran testa” dal Ripamonti nella sua Storia patria, ma che invece “parea nato per rovinare la monarchia di Spagna”, come scrive il Muratori negli Annali.

            È un destino che nemmeno il brindisi metta fine alla confusione e all’urlio: magari proprio per effetto della qualità e dell’abbondanza del vino; certamente però non è stata felice la scaramantica battuta sulla “carestia… bandita e confinata in perpetuo” dal palazzo di tanto splendido anfitrione. Quell’improvvido accenno alla carestia appunto offre l’occasione per discettare di economia ed  è troppo ghiotta per lasciarla andare senza stimmatizzare il complotto degli incettatori di farina, veri e unici responsabili della sciagurata congiuntura, ciò che reclama giustizia pronta, severa ed esemplare: dunque, impiccarli, a cominciare dai fornai e via di seguito.

            “S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.

            Don Rodrigo intanto dava dell’occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d’impazienza né di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d’essere stato ascoltato. L’avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poiché la seccatura non si poteva scansare, si risolvette d’affrontarla subito, e di liberarsene; s’alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s’avvicinò, in atto contegnoso, al frate, che s’era subito alzato con gli altri; gli disse: – eccomi a’ suoi comandi -; e lo condusse in un’altra sala.”

            Termina qui il banchetto tenutosi il giovedì 9 novembre del 1628. Il giorno prima Renzo e Lucia avrebbero dovuto cessare di essere promessi per diventare sposi davvero, ma, come ognun sa, non era andata così, perché don Abbondio era indisposto per via di una sua malattia inguaribile in fase di acuta recrudescenza: la paura. Noi saltiamo a piè pari due anni di storia, di tante vicende e di tanti morti, e andiamo addirittura ai primi di novembre del 1630, (siamo un po’ oltre la metà del Capitolo XXXVIII e ultimo della Storia milanese del XVII secolo scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni), quando finalmente si farà quel matrimonio che non s’aveva “da fare né” il giorno stabilito “né mai(1)”. E torneremo in quel palazzotto per un ben altro pranzo: anzi, per due, distinti e in contemporanea;… va’ a sapere se almeno il menù sarà stato lo stesso.
(continua)

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Note
(1) Cfr. Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, I, 15;
Tutto il restante virgolettato viene dal capitolo V dell’opera citata.

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