Una missione nelle valli subalpine

San Francesco d’Assisi non fece un idolo della povertà, ma un segno di umile e infuocato amore a Dio per essere più libero di servire i fratelli mostrando che non ci salviamo per le nostre opere ma per la fede in Cristo Gesù. La povertà era in primo luogo spogliazione interiore di ogni autoaffermazione, mentre Pietro Valdo fece della povertà un cavallo di battaglia bizzarro e ribelle che lo condusse ad allontanarsi dalla Chiesa cattolica. Lungo i secoli i discendenti di questo Pietro li troviamo ben organizzati alla fine del 1500 nelle tre Valli nord occidentali dell’Italia, tenuti d’occhio da un gruppo di ferventi cappuccini, guidati da fra Valeriano da Pinerolo, uomo straordinario per santità di vita, di carattere affabile e efficacissimo predicatore. I Valdesi spadroneggiavano minacciando e lusingando gli abitanti di queste valli, mettendo in atto ogni mezzo per impedire la predicazione di gesuiti e cappuccini. I nostri intrepidi missionari ebbero modo di sapere cosa significava il monito di Francesco a frate leone: “tu scrivi che questa è perfetta letizia”. Pur di riportare la purezza del vangelo tra le gente e riconquistare i ribelli valdesi, ebbero a soffrire la fame, restare all’addiaccio, essere disprezzati, derisi. In quei rigidi inverni “quante volte l’acqua conglutinavasi (ristagnava)nella loro barba, ed affaldandosi(sovrapponendosi) e costipandosi (compattandosi), finiva per restarvi gelo! Quante volte dopo aver errato l’intero giorno per i vecchi scheggi (rocce spigolose) di quelle rupi ed i declivi fondi di quelle valli, fra lo scroscio del tuono e l’ululo del vento, sotto la larga pioggia o la neve che cadeva a fiocchi, la sera non trovavano un tizzo (carbone ardente) a scaldar le membra, non un pane a placar la fame” (pag. 210). La testimonianza e la vigorosa predicazione dei nostri cappuccini riconquistarono migliaia di valdesi, restituirono all’antico splendore le chiese parrocchiali usurpate e saccheggiate, ma altri pieni di rabbia si avventarono contro fra Maurizio, Ludovico e Filippo, intrepidi testimoni dalla verità, e li bastonarono, li ferirono, strapparono loro barba e abiti; furono avvelenati e non sortendo l’effetto col veleno, di notte appiccarono il fuoco alla casupola dove dormivano: si salvarono per puro miracolo. Lo stesso fra Valeriano sentì vicino a sé il puzzo delle armi da fuoco fin sull’altare. Contro queste ignobili forme di persecuzioni, contro le calunnie rispondevano con la dolcezza e la pazienza. Niente li scoraggiava: testimoniavano la verità del Vangelo, l’amore di Cristo Gesù tra le ingiurie, i flagelli e le ferite; l’unica preoccupazione era riportare tutti alla verità cattolica “nel freddo e nella nudità, in molti travagli, nelle angustie, in qualsivoglia rigore di stagione; molli dalla pioggia, istupiditi dal gelo, soverchiati dalle nevi, sommersi quasi dalle alluvioni, assiderati dalle notturne brume” (p.221). Nel pieno di questa missione fruttuosa fra Valeriano fu richiamato come superiore a Genova e fra Filippo lo sostituì nel portare avanti il lavoro apostolico nella Valli. Questi cambiamenti all’epoca erano considerati normali “sapendo ognuno esser proprio del Cappuccino alternare tra quel misto di attivo e di contemplativo, che innanzi dicemmo costituire la fisionomia dell’Ordine” (p.223). Tanto era lo zelo apostolico di fra Filippo che si guadagnò il titolo di “dominatore degli eretici, di operaio infatigabile” (idem) e si disse di lui che era ambidestro, con una mano suscitando e fortificando la fede in Gesù e con l’altra denunciando i vizi e provocando la conversione per il perdono dei peccati. Vicino a Saluzzo si trovava Verzuolo, piena di cattolici rilassati e di valdesi e il nostro fra Filippo escogitò l’indulgenza in forma di giubileo. Fu un successo perché attraverso le Quarantore tutti da veri penitenti in cenere e cilicio, come nella città di Ninive, accorrevano ad adorare Gesù realmente presente nell’eucaristia e si confessavano, tornando al fervore della carità, al recupero della fede e al ringiovanimento della speranza. Furono organizzate processioni penitenziali accompagnate dal coro angelico di numerosi fanciulli. Il frutto sperato venne abbondante. “Si videro inveterati peccatori, scellerati delinquenti, scandalosi diffamati cadere a piè dei sacerdoti e piangere i loro falli, si videro nemici e duellanti comporre le antiche gare e trattarsi in pace, si videro finalmente i più pertinaci calvinisti rigettar l’errore ed abbracciar la verità con tutto l’animo” (p.225).

Grande evangelizzatore e suscitatore di vocazioni indigene fu fra Stefano da Tenda, autentico cappuccino per una vita di povertà, che come cibo aveva l’orazione e condimento la sopportazione, spendeva le sue forze catechizzando e scrivendo contro l’eresia valdese. Fu minacciato di morte ma noncurante si faceva tutto a tutti, spengendo i rancori e le discordie, guarendo le molteplici malattie dello spirito. Come non ricordare il giurista e scrittore fra Zaccaria Boverio, cappuccino di poche parole ma di molta orazione, rigidissimo nell’osservanza della vita fraterna. Conoscitore  anche del francese, del greco e dell’ebraico correva ovunque ci fosse bisogno di portare la verità di Cristo, fustigando vizi ed errori ma sempre mettendo a salvo gli erranti e non c’era categoria di persone che sfuggisse alle sue cure pastorali. Il nostro fra Stefano con fra Isidoro ebbero a sentire sulle spalle e nell’anima l’odio, il disprezzo dei Valdesi e anche loro cantarono con Francesco l’inno alla perfetta per i calci, i pugni, gli sputi, le vergate che piagarono il corpo ma resero più evangelica l’anima, che tutti conquistava con la sapienza dell’amore e la tenerezza dell’affetto che era servizio dei poveri ed ammalati e le volontà più ribelli erano domate da questa forza divina.  La vergognosa guerra dei trent’anni non risparmiò nemmeno le Valli dove Valdesi e calvinisti tentarono di cancellare la presenza dei cattolici perché “impedivano loro di usare alle chiese, strappavano gli infanti al battesimo, insultavano i divini ufficii, insultarono il vescovo sulla piazza pubblica, violarono i cimiteri, sparsero derisioni ed immondizie nelle processioni fino sul Sacramento” (p.236), ferirono ed uccisero gettando la costernazione tra il popolo. Contro questa situazione di terrore e di morte si alzò alta la voce ed efficace l’opera di valorosi missionari cappuccini come fra Marcello da Torino e fra Francesco da Moncalieri che riuscì a riportare la pace nella valle di Dronero nella quale fondò un convento nel 1620. Ripieno dello spirito di Elia e di Eliseo fra Isidoro da Busca annunciava la parola che libera e per la sua umiltà, il suo silenzio di fronte alle offese e minacce molti si convertivano, la morte improvvisa di altri suscitò il timore di Dio. Sull’esempio di san Francesco riparò ben quattordici tra chiese e cappelle danneggiate dalla furia protestante. Godette fama di taumaturgo. L’opera continua dei nostri missionari cappuccini, condita di sacrificio, rinunce, servizio ai più poveri, umiltà, preghiera e povertà ricondusse alla chiesa nel territorio della Vallate migliaia di protestanti e confermò nella fede tutti i loro fratelli e sorelle cristiani, conquistati alla pratica delle virtù non solo dalla loro parola infuocata ma soprattutto dalla coerenza di vita fraterna nello spirito di Francesco di Assisi.

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