“Molti sono caduti a fil di spada, ma non quanti sono periti per colpa della lingua(1)”.

            “Le note sono soprattutto grammaticali e sintattiche; quelle storiche sono ridotte allo stretto necessario; (…) anche perché l’esperienza insegna che certe note sapienti i ragazzi le saltano a piè pari”. Così, nel 1949, Sergio Cammelli nella Prefazione al suo Florilegium(2). Tenendo fede ai suoi principî, a proposito di Tibullo veniamo succintamente a sapere che nacque verso il 50 a. C. e morì nel 18 o 19 a. C., senza neppure accennare che si chiamava Albio. Di questo poeta si sa veramente poco e le notizie che anche oggi si possono raccattare qua e là non sono molte né molto illuminanti: certamente non campò molto, al più 36 anni. Al Cammelli questo giova ne poeta piacque molto e, – come di altri autori classici e anche della tarda latinità –, nella sua antologia ne propose alcuni brani, al fine di dare modo ai ragazzi della Scuola Media di impratichirsi nella lingua e nella struttura della poesia elegiaca latina. Al termine del suo libro si legge: “Ecco qui un bel distico di Tibullo con cui ci piace di porre fine al volume:

                                    Quī́s fŭĭt | hṓrrēn- | dṓs || prī- | mū́s quī | prṓtŭlĭt | ḗnsēs?
                                    Quā́m fĕrŭs | ḗt vē- | rḗ || fḗrrĕŭs | ī́llĕ fŭ- | ĭ́t!(3)”.

            Per doveroso rispetto, lo abbiamo riportato come nell’originale, salvo aggiungere un accento che era saltato e alcuni trattini che evidenziano lo spezzamento di una medesima parola in sillabe appartenenti a piedi diversi.

            Poteva succedere che l’aspetto estetico di questi e di un po’ tutti gli altri brani elegiaci studiati non venisse tanto percepito dal ragazzo, studente poco meno che quattordicenne, tutto preso (quand’era preso!) a vedersela con la metrica e la prosodia, per cui la poesia restava indietro, lasciando il posto al problema ritmico e a quello di capirci qualcosa, dato che la costruzione latina è sempre un po’ complicata, specialmente poi nei versi. A dire il vero, da questo punto di vista, la poesia di Tibullo è abbastanza lineare, – più di quella di Ovidio, per esempio –, e per questo poteva capitare che il nostro Albio finisse per essere ingiustamente poco stimato e restasse in un angolo della memoria come materia dei primi imbarazzati esercizi di allenamento in prospettiva di ben altri cimenti futuri, fra trimetri giambici e strofe saffiche. Di più: poteva accadere che al Ginnasio e al Liceo classico continuasse a far la parte del leone la traduzione dal ed in latino, con scarso rilievo dato alla storia della letteratura, e allora di Tibullo, come di tanti altri, non se ne parlava proprio più.

            Quando in seguito si ripresentano alla memoria certi ricordi, evocati in ultima analisi da eventi concreti e scottanti del momento presente, si fa avanti un’esigenza nuova, forse più matura, senz’altro più vera, che è quella di ancorarsi al significato del contenuto e apprezzarlo, come nel caso in parola, per la drammaticità in crescendo, l’affanno concitato del dire (i tre spondei tra il dattilo che formula la domanda e l’adonio finale che l’esplicita), la malinconia del pensiero nel pentametro: quasi un desolato scuotere il capo.

            Torniamo su quel distico iniziale della decima elegia del libro primo, riproponendolo accompagnato da due altri distici immediatamente successivi:

                                    Quis fuit horrendos primus qui protulit enses?

                                       Quam ferus et vere ferreus ille fuit!

                                    Tum cædes hominum generi, tum prœlia nata,

                                       Tum brevior diræ mortis aperta via est.

                                    At nihil ille miser meruit; nos ad mala nostra

                                       Vertimus, in sævas quod dedit ille feras.

            Seguendo la titolatura e le note del Cammelli(4), traduciamo come segue:

Guerra e Pace
                                    Chi fu colui che per primo introdusse l’orrore delle armi?
                                       Quanto feroce, anzi addirittura di ferro, fu costui!
                                    Allora nacquero le stragi per il genere umano, allora le guerre,
                                       allora alla morte crudele fu aperta una via più breve.
                                    Ma quel poveruomo non ha colpa; siamo noi che a nostro danno
                                       abbiamo rivolto quanto lui ci aveva dato contro le bestie feroci.

            Per quanto si faccia, le traduzioni hanno sempre i loro limiti e possono perfino insinuare suggestioni non propriamente suggerite dal testo. “Ferus” e “sævus”: dicono sostanzialmente la stessa cosa, però con sfumature diverse; tradurre, come abbiamo fatto, entrambi gli aggettivi con l’italiano “feroce” può dar luogo ad una possibile nuova implicazione, come dire che se l’inventore non fu forse feroce nelle intenzioni, gli uomini sono alla fine animati da una ferocia più tragica di quella belluina. Volutamente e sarcasticamente celiando sulla definizione filosofica, per cui “l’uomo è un animale razionale”, un tale chiosava: “sì, per essere più bestia”. Non tantissimo tempo fa parve frutto di lucido ragionamento sancire la discriminazione razziale e conseguentemente decretare l’eliminazione del discriminato: la lingua, la propaganda ammazzò le persone, i forni ne incenerirono i corpi.

            A loro volta le traduzioni possono oscurare alcuni aspetti dell’originale, come quel “ad mala nostra” – tradotto “a nostro danno” –, che lascerebbe quasi intendere che alla fine siamo noi la causa di tutti i nostri mali, compresa la morte, che incomberebbe comunque, ma alla quale abbiamo sconsideratamente spalancato le porte. E siamo sempre lì, a confrontarsi col male, a denunciarlo, a deprecarlo e a vederlo di nuovo imporsi e imperversare, perché è tenacemente radicato dentro di noi.

            Non seguiteremo ulteriormente in una prolissa analisi filologica del testo e della – quale si sia – relativa traduzione data; piuttosto ci sarebbe da osservare che a volte c’è una parvenza di pace sonnacchiosa, che copre momentaneamente un’insofferenza latente e minacciosa, come poteva essere quella che andò maturando sotto la pax augustea: una pax che addormentò un po’ anche la coscienza di grandi spiriti, spinti, se non addirittura costretti, secondo i casi, ad un opaco o baldanzoso clientelismo.

            La pace che non è pace, ma solo quella “dei sepolcri(5)”…. e poi quel sempre attuale e conflittuale binomio: Guerra e pace; oggi, in particolare, Война и мир, che non è più soltanto la grafia riformata del titolo del romanzo storico di Lev Tolstoj. Davvero “Nihil sub sole novum(6)”.

(1. continua)

Note
(1) Sir 28,18.
(2) Sergio Cammelli, Florilegium, Antologia latina per le Scuole Medie, Bulgarini Editore, Firenze.
Sesta ristampa, 1951.
(3) o. c., pag. 399.
(4) o. c., pagg. 330-331.
(5) RODRIGO (con impeto): “Orrenda, | orrenda pace! La pace è dei sepolcri!”.
(Atto II, Parte II, Scena VI, da Don Carlo, musica di Giuseppe Verdi, Libretto di Joseph Méty & Camille du Locle; tradotto in italiano da Achille De Lauzières).
(6) Qo 1,10a “non c’è niente di nuovo sotto il sole”. Letteralmente l’ebraico recita “non tutto-nuovo”, da intendere “tutto non nuovo”.

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