Dopo un po’ di nostre considerazioni, quali possano essere state, nei precedenti articoli, – non privi, per altro, di citazioni -, abbiam pensato questa volta di dare spazio ad alcuni brani d’un grande Autore, abbastanza estesi, non bisognosi di commenti, anche perché assai noti, di cui si dovrà però motivare la scelta.

            “Addio, monti sorgenti dall’acque,” nei tempi andati s’imparava a memoria, fino alle parole: “Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Vogliamo illuderci che succeda ancora e comunque sperare che chi avesse l’eroica pazienza di leggerci, se non altro, vada a prendersi o riprendersi I Promessi Sposi e leggersi un paio di pagine, prima della fine del Capitolo VIII, perché noi quel brano lo salteremo a piè pari, soffermandoci piuttosto sulla sua, chiamiamola, introduzione e passare poi, subito dopo, quasi agli inizi del Capitolo IX, al momento, cioè, della separazione di quei “passeggieri”, prima traghettati da un barcaiolo sulla sponda occidentale di “quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno,” e successivamente trasportati su un barroccio fino a Monza.

            L’altro brano dello stesso Autore, preso circa alla metà del Capitolo XXXIV, non s’imparava a memoria: si leggeva e, senza farci vedere, ci si asciugava gli occhi. Per darsi un tono, quando ci interrogavano, facevamo sfoggio, scandendo la metrica, della citazione virgiliana, obbligatoriamente riportata in nota di una qualsiasi edizione scolastica:
     Purpureus veluti cum flos succisus aratro
                        languescit moriens, lassove papavera collo
                       demisere caput, pluvia cum forte gravantur (1).

            Ma in molti casi e a diversi di noi, figli della seconda guerra mondiale, esperti, nostro malgrado e troppo presto, di macerie, fame e malattie, che avevamo respirato polvere e paura, non veniva alla mente un papavero rosso; piuttosto uno sbiadito e floscio fiocco celeste o rosa, quando c’era, sul battente di un uscio vicino a casa nostra e poi, qualche poco tempo dopo, una minuscola bara bianca che usciva da quella stessa porta. In certi momenti, gli eventi e, come le chiamano, le congiunture risuscitano lo sgomento della moria, come ai tempi della pestilenza o della guerra appunto: le lacrime allora non bastano più, ma per una bara bianca c’è ancora posto per una commozione oltre l’aridità stralunata, stanca, spossata; per un sospiro, un gemito: “Ancora! Anche questa!…”.

            Era una notte di luna piena e si potevano vedere o intravedere tante cose, belle, familiari, domestiche: il fico dell’orto, la finestra della propria camera; o terribili, come la torre piatta del palazzotto di don Rodrigo. Per non indugiare sul terrore di queste e per fissare nel ricordo la nostalgica immagine di quelle non resta che abbandonare il capo su un braccio, appoggiato alla sponda, e piangere segretamente. All’addio notturno alle cose, alle abitudini e ai sogni della vita di sposa, il giorno dopo c’è l’addio fisico tra le persone: “Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e, stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: «a rivederci», e partì”. Non avrebbe trattenuto le lacrime, se appena le consuetudini del tempo gli avessero permesso almeno di toccare la mano di Lucia e se avesse presentito quant’era lontano il momento di rivedersi.

            “… una donna,… gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante;”: simbolo di una maternità tremendamente consapevole e sofferta, meglio: che non ammette aggettivi; quella donna è solo e per sempre la madre di Cecilia.

            La parola al Manzoni.

            Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. (…)

            Dopo una sera quale l’abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela, passata in compagnia di que’ pensieri, col sospetto incessante di qualche incontro spiacevole, al soffio di una brezzolina più che autunnale, e tra le continue scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamente chi di loro cominciasse appena a velar l’occhio, non parve vero a tutt’e tre di sedersi sur una panca che stava ferma, in una stanza, qualunque fosse. Fecero colazione, come permetteva la penuria de’ tempi, e i mezzi scarsi in proporzione de’ contingenti bisogni d’un avvenire incerto, e il poco appetito. A tutt’e tre passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s’aspettavan di fare; e ciascuno mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi 1ì, almeno tutto quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servizi; ma il padre aveva raccomandato a queste di mandarlo subito per la sua strada. Addussero quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragioni; che la gente ciarlerebbe, che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch’egli potrebbe venir presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolvette di partire. Si concertaron, come poterono, sulla maniera di rivedersi, più presto che fosse possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e, stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: «a rivederci», e partì.

            Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.

Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.

            Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così».
«O Signore!» esclamò Renzo: «esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!».

            Diverse commozioni in circostanze diverse, ma sempre tristi, legate a un addio espresso o temuto. Avremmo intenzione, in seguito, di accennare ad altre circostanze ancora, forse anche,… come dire?… qualcuna a lieto fine. Poi sarà di nuovo il momento di tornare a Dante e alla sua Commedia.

Note
 (1) P. Vergilius M., Æneis, Liber IX,435-438:
Come quando il fiore rosso falciato dall’aratro
appassisce morendo, o i papaveri con lo stelo piegato
hanno abbassato la corolla, appesantiti dalla pioggia improvvisa.

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