Nell’elenco dei Numeri musicali di Rigoletto, secondo l’edizione Ricordi, si legge:

Atto I
• 4 Scena e Duetto di Rigoletto e Gilda;
 • Scena Pari siamo!… io la lingua, egli ha il pugnale (Rigoletto) Scena VIII

In questo Recitativo della Scena VIII il baritono canta, tra l’altro: “Il retaggio d’ogni uom m’è tolto… il pianto!…”. La debita drammatizzazione canora della parola “pianto” (come, per altro, di tutto questo monologo) dipende strettamente dall’interpretazione datane dal cantante, oltre che dal maestro direttore. In ogni caso la partitura prevede sulla sillaba “pian-” un re centrale di 7/8, (di cui 4/8 senza accompagnamento orchestrale), legato a un do di 1/8, per discendere sul sib della sillaba finale “-to”, della durata di 1/4. Ai nostri giorni anche su un telefonino è possibile rendersi conto, sia pure molto approssimativamente, della sonorità di quello che stiamo dicendo.
Certamente il pianto non è l’unica, per quanto irrinunciabile, eredità del genere umano; viene “tolta” quando le circostanze impediscono di dare sfogo alle lacrime, che devono piuttosto essere soffocate, prima ancora che inghiottite. È il caso di un buffone di corte, costretto a far ricorso all’ironia, al sarcasmo, all’insinuazione, alla esagerazione insolente e perfino alla mistificazione grottesca della realtà per conseguire il discutibile scopo del suo barbaro ufficio.
Rigoletto nella partitura verdiana nasce musicalmente sotto il segno della maledizione, prima ancora che la sua empietà gliela provochi e che inesorabilmente lo colpisca; incombe su di lui fin dalle prime battute del Preludio: un do centrale, all’unisono con l’altro dell’ottava superiore, ritmato con l’andamento di un settenario giambico sdrucciolo (1/16 | 7/16 1/16 7/16 1/16 | 7/8 1/8 |1/2), come un incubo ed eseguito dagli ottoni in un crescendo e diminuendo; il motivo è riproposto in canto tre volte, sul do centrale, come un martellante ritornello, nel recitativo angosciato e impaurito “Quel vecchio maledivami!!”: due volte (N. 3,10-13; N. 4,11-14) completamente identico e con un tono più pacato (1/8 | 3/8 1/8 3/8 1/8 | 7/8 1/8 | 1/2), consapevole di un’attualità fatalmente incombente; l’ultima volta (N. 4,58-61) , riprendendo quasi esattamente le battute iniziali con i loro accenti dilatati, e la tendenza a svanire in un terrore più attonito o che piuttosto riaffiora da lontano (1/16 | 7/16 1/16 7/16 1/16 | 7/8 1/8 |1/4).
Rigoletto è un “gobbo”, deforme anche nell’animo, pronto a partecipare a un complotto gabellato per “ridevol cosa”; smanioso di vendetta, “tremenda vendetta”; da un momento all’altro privo del presente abituale e senza un progetto per il futuro: quando tutto fosse andato secondo i suoi piani feroci, scappato da Mantova e rifugiato con la figlia a Verona,… a vivere di che, a far cosa? Di lui si salva solo la consapevolezza del proprio misero stato, che viene messa in evidenza nel contrasto tra il timore della “sventura” che potrebbe coglierlo (e lo coglierà!) e l’affetto paterno verso Gilda, smisurato, esclusivo (la figlia è la sua “vita”) e stretto tra il necessario “sospetto” guardingo e le “cure” gelose, tutte comandi e divieti.
Francesco Maria Piave scrive al termine del suo libretto

Rigoletto Gilda! mia Gilda! è morta!…
Ah! la maledizione!
(strappandosi i capelli cade sul cadavere della figlia)

La disperazione dell’ultimo atto è l’inferno definitivo, perpetuo e completo di Rigoletto: perso l’unico affetto, immolatosi per risparmiare un libertino superficiale, disgustoso per il suo considerare tutto al pari di una “avventura”, che non cede a nessuna “l’impero” del suo cuore solo perché non ne ha uno che non sia solo l’anatomico muscolo involontario. Rigoletto ha pianto veramente, senza lacrime, di pianto che ha dell’umano, prima, proprio quando ha amaramente costatato la sua impossibilità ad essere e comportarsi da uomo, come si dice, normale. Il pianto, quello vero, talvolta è perfino liberatorio; ma anche quello amaramente sconsolato, però dignitoso e composto, compreso di sé, senza gridi e senza gesti sconsiderati: ecco, pure quest’ultimo non è la più straziante delle dannazioni. Verrebbe da dire che è più dannato il Rigoletto di Verdi, sulle rive del Mincio, del Paolo di Dante, nel secondo cerchio infernale: nell’opera cade “come corpo morto cade” il protagonista, non il pellegrino terreno che attraversa l’oltretomba. Anche volendo restare nell’ambito della Commedia, come pure andando a spaziare fuori, si potrebbe azzardare un’opinabile scaletta, un crescendo di pena; allora ancora più dannato di tutti, ci pare, è il conte Ugolino:

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
  riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo all’osso, come d’un can, forti. (Inferno, XXXIII,76-78)

La dannazione è una parola grossa e terribile, specialmente se consiste nella fatua volontà di perpetuare nell’orizzonte infinito dell’eternità sentimenti di amore, – parentale o passionale che sia e che non vuol comunque morire -, intrecciati con propositi di una impossibile vendetta, che più rode quanto più fantasticata.
Quello del conte Ugolino è un esempio, fra i tanti possibili, di pianto che lacrima parlando, convinto che chi lo ascolta non possa, a sua volta, non piangere; ma che, terminato il racconto del “disperato dolor che il cor gli preme”, riprende il suo immutabile accanimento feroce.
A volte il titolo d’un articolo è bene spiegarlo un po’: di Rigoletto (del suo pianto) qualcosa s’è detto; di Filumena (Marturano), alla prossima puntata; di “& C.” ce ne sono fin troppi e ne abbiamo scelto uno, non proprio a caso, per drammaticità e altezza poetica.
Poi, a proposito di dannazione, c’è quella conseguita in seguito al gusto della sfida attaccabrighe senza sfidante; al partito preso, alla fissazione, all’ubriacatura, si direbbe, della gratuita violazione di ogni più elementare regola e norma di vita: quella è un’altra cosa.

(continua)

Note
Francesco Maria Piave, Rigoletto, musica di Giuseppe Verdi, Ricordi, 1851

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