Rigoletto, Filomena & C. (2)

            Ci sono tautologie cincischiate, rimasticate, che crescono in bocca, come quando uno deve per forza rispondere e non sa cosa dire: imbarazzo; o, magari, come quando uno sa anche troppo bene quello che vorrebbe dire, ma non si può, non è il caso: potrebbe trattarsi di saggia prudenza e potrebbe essere servile piaggeria.
            Ci sono tautologie lapidarie, che hanno la potenza di dire l’indicibile. Succede di fronte al mistero profondo e insondabile; succede quando il soggetto troverebbe bensì completezza di descrizione, solo però seguito da una successione interminabile di predicati, che, ovviamente, è una via impraticabile. Se poi si prova a cominciare a percorrerla, c’è sempre il rischio di fermarsi proprio quando sarebbe stato ancora più necessario andare avanti: in ogni caso, gli elenchi troppo lunghi diventano prolissi e le parole, nomi o aggettivi che siano, che li compongono, perdono di efficacia e di mordente.
            Filumena Marturano non può condensarsi in una semplice tautologia; tuttavia
                        “’E figlie so’ ffiglie!”,
detto quattro volte, è una tautologia potente che qualifica tutta quest’opera di Eduardo. Perché per parlare appunto dei figli ci si troverebbe davanti a una catena di predicati, come accennavamo prima; anche sbrigandosela con affermazioni tipo: sono la vita, il domani che diventa sempre più oggi,… non ci siamo ancora. Semmai con diversa o minor carica affettiva, ma qualcosa del genere può essere sentito e pensato anche di altre persone o, addirittura, di cose, eventi, circostanze, attese e speranze.

            Quell’esclamazione, detta la seconda volta come una certezza conquistata e posseduta, viene dalla bocca di Filumena; provoca in lei una risposta che è un giuramento sull’inviolabilità della vita nel grembo materno, capace perfino di indurre a violare, sembra, il dettato della morale, secondo cui il fine non giustifica i mezzi:
                        “E v’aggio crisciuto [i tre figli, Michele, Riccardo e Umberto], v’aggio fatto uommene, aggio arrubbato a isso (mostra Domenico) pe’ ve crescere!”.
           Per lei, senza nemmeno pensarci, anche senza conoscere il codice, che neppure saprebbe leggere, si è trattato di puro stato di necessità.

            La terza e la quarta volta è Domenico Soriano, diventato finalmente marito di Filumena, che se lo ridice, “’E figlie so’ ffiglie!”, prima come a volersi convincere di una paternità effettiva e affettiva allargata a tre, dove quella naturale si sarebbe di per sé limitata ad un solo figlio; poi come una convinzione condivisa. Non è dato sapere chi l’abbia detto la prima volta,
                        “dint’ ’o vico mio [di Filumena: San Liborio], nnanz’ all’altarino d’ ’a Madonna d’ ’e rrose”.
                        “Forse si m’avutavo avarría visto o capito ’a do’ veneva ’a voce: ’a dint’ a na casa c’ ’o balcone apierto, d’ ’o vico appriesso, ’a copp’ [=da sopra] a na fenesta…”;
nessuna ragionevole ipotesi regge e allora la conclusione, si direbbe, mistica: “È stata ’a Madonna!”. In fondo anche questa è un’ipotesi, quella forse meno improbabile, data l’ora e la via deserta
                        (“Erano ’e tre dopo mezanotte. P’ ’a strada cammenavo io
sola.”):
però, quando non l’avesse auditivamente detto la Madonna e si fosse trattato soltanto di una sorta di locuzione interiore, bisogna dire che sono parole estremamente convenienti sulle sue labbra: “’E figlie so’ ffiglie!”.

                        Filumena   E ccà ce sto io: Filumena Marturano, chella ca ’a leggia soia è ca nun sape chiàgnere. Pecché ’a ggente, Domenico Soriano, me l’ha ditto sempe: «Avesse visto maie na lacrema dint’ a chill’uocchie!». E io senza chiagnere… ’o vvedite?! Ll’uocchie mieie so’ asciutte comm’ all’esca (*)… (Fissando in volto i tre giovani) Vuie me site figlie!
            La donna nata e cresciuta
                        “Dint’ a nu vascio ’e chille,… chilli vascie…. I bassi…. addò ’a stagione nun se rispira p’ ’o calore pecché ’a gente è assaie, e ’a vvierno ’o friddo fa sbattere ’e diente…. Addò nun ce sta luce manco a mieziuorno…. Dove non c’è luce nemmeno a mezzogiorno…. Chin’ ’e ggente! Addò è meglio ’o friddo c’ ’o calore….”;
provata dalla fame
                        (“Una parola bbona, me ricordo ca m’ ’a dicette pàtemo,… e quanno m’ ’arricordo tremmo mo pe’ tanno [=allora]…. Tenevo trídece anne. Me dicette: «Te staie facenno grossa, e ccà nun ce sta che magnà, ’o ssaje?»”);
che la durezza della vita qualche anno dopo (“Tenevo diciassett’anne.”) porterà in “Chella «casa»”; che si è anche illusa
                        (“Io, chella sera [a Domenico] te vulette bene overamente. Tu, no, tu avive fatto avvedé….”);
capace di ricorrere all’inganno per strappare un matrimonio col vecchio e incorreggibile metà cliente e metà amante, che ha saputo fare, a suo tempo, anche la parte del geloso: Filumena non sa e non può piangere; aggredisce la vita per amore viscerale verso i suoi figli, anche quando non sono più cuccioli ma uomini fatti.

            Il sipario calato sul secondo atto si riapre su un Domenico completamente cambiato, disponibile, affettuoso, premuroso, comprensivo: nel frattempo è diventato marito e padre nell’anima, prima ancora che nel rito e secondo la legge. Ed ecco il pianto liberatorio, quello di una gioia tardiva eppure appagante, per quel tanto che dà sul momento di serenità e di compenso, e ancor più per quello che lascia ai figli e ai nipoti (Michele, l’idraulico, ha quattro bambini).
                        Filumena (felice)   Dummi’, sto chiagnenno…. Quant’è bello a chiàgnere….
            Domenico dice e fa ancora alcune poche cose “mentre cala la tela” sull’ultimo atto. A noi piace chiudere il sipario su questa nostra chiacchierata un attimo prima, con qualche parentesi di omissione, ripetendo dentro di noi e quasi volendo gridarla in faccia al mondo, con voce ferma e occhi umidi, la fatidica tautologia:
                        Domenico (stringendola teneramente a sé)   È niente… (…) ’E figlie so’ ffiglie…. (…)…
                                                                  (… cala la tela).

Note
(*) Asciutto come l’esca = secco come l’esca (per il fuoco). L’esca è una porzione di materia secca costituita da un fungo (fungo dell’esca, Fomes fomentarius); imbevuta di una soluzione di salnitro (nitrato di potassio) e posta sulla pietra focaia, si accende con le scintille prodotte dall’acciarino.
Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari: Filumena Marturano, (1946), Einaudi, 1951 ss

(fine)

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