ESILIO DI DANTE: ATTINGENDO DALLA MITOLOGIA

Saetta prevista vien più lenta.

            Il mito di Fetonte trova largo spazio ne Le Metamorfosi di Ovidio: gli ultimi trentadue versi del Libro I e i primi quattrocento del Libro II parlano di lui o si riferiscono alla sua vicenda. Per cominciare un po’ meglio di quanto non vada a finire, diciamo subito che, – a dispetto di come suona alle nostre orecchie -, è un gran bel nome; più precisamente, detto con proprietà di linguaggio, è un participio sostantivato: φαέθων, φαέθοντος (phaéthōn, phaéthontos), che significa ‘splendente’ ed è, di per sé, l’epiteto che più naturalmente si addice al Sole (Ἥλιος, Hḗlios).

            Quest’ultimo, considerato un dio, ebbe dalla ninfa Κλυμένη (Klyménē)(1) – nome anche questo di tutto rispetto, che vuol dire ‘Inclita’ -, un figlio, cui, ragionevolmente, fu posto nome Phaéthonte, – così scritto, per amor di corretta grafia e originaria pronuncia -, ma oramai ribattezzato Fetónte: un po’ come il manzoniano Lorenzo, chiamato “come dicevan tutti, Renzo(2)”, anche se, oggigiorno, Renzo (quello manzoniano) lo dicono davvero in pochi e Fetonte ancora meno.

            Èpafo(3), figlio di Zeus, suo coetaneo, grande amico e un po’ burlone, aveva messo in dubbio la paternità divina di Fetonte, il quale corse a chiedere a sua madre Climene come stessero le cose. Fu prontamente rassicurato, ma se questo poteva bastargli, per Epafo occorreva fornire una prova convincente. A furia d’insistere, ottenne dal Sole, suo padre, di poter guidare lui, per un giorno, il carro infuocato: una prova inoppugnabile, che avrebbe dovuto chetare i chiacchieroni più impertinenti.

            L’inesperienza, la paura del vuoto e la bizzarria dei cavalli combinarono un disastro: una striscia di cielo fu bruciacchiata, dando origine alla Via Lattea, e la terra stessa stava per andare completamente a fuoco. Zeus andò per le spicce e, senza tener conto della provocazione beffarda di quel suo ragazzo, evitò la catastrofe fulminando l’avventuroso e disgraziato giovane cocchiere, che precipitò in qualche parte di mondo, non univocamente precisata. Difatti, i vari Autori del passato, rimaneggiando il racconto, hanno indicato assai concordemente il favoloso fiume Eridano (Ἠριδανός, Hēridanós, ‘Primo fiume?’) e, quindi, le località più diverse, proprio per l’incertezza di una concreta identificazione geografica. Fra i tanti fiumi si è anche fatto il nome del Po, il quale sarebbe nella realtà il probabile corrispondente del fiume mitico: a maggior gloria e onore della Padania, se fosse vero, perché per Eschilo, ad esempio, si trattava piuttosto del Rodano.

            Per il gusto d’una certa completezza, – senza che sia necessario, ché, a ben pensarci, necessario è solo tutto quello che serve a salvarsi l’anima -, dobbiamo dire che anche Epafo fece una brutta fine: lo divorarono i Titani. E questi erano figlioli di dèi: immaginarsi il resto.

            Dante, nel XVII del Paradiso, evoca Fetonte, senza nominarlo esplicitamente; lo descrive come colui che andò appunto dalla madre Climene per essere rassicurato quanto al dubbio sollevato circa la sua ascendenza paterna; inoltre, con riferimento al triste esito seguito al soddisfacimento della sua azzardata richiesta, – sempre senza un diretto racconto del fatto -, lo indica come l’esempio, che induce  tuttora i padri ad essere restii nell’accontentare subito e in tutto i propri figli(4).

            A tal proposito, vengono subito a mente a tutti, penso, i dinieghi e le difficoltà mosse dai genitori, in tempi recenti, a lasciare che i propri ragazzi potessero prendere il patentino e il motorino “50” a quattordici anni: a un’età così giovane! (impressionati com’erano, ovviamente e sicuramente, da quel tragico ricordo e cercando di impressionare, a loro volta, i propri smaniosi e insistenti rampolli con il racconto di un così sconvolgente antefatto).

            Dante si paragona a Fetonte esclusivamente per mettere in risalto il desiderio intenso che ha di conoscere la verità riguardo al suo futuro, dal momento che, dichiara,

                        «… dette mi fuor di mia vita futura
                           parole gravi, avvegna ch’io mi senta
                           ben tetragono ai colpi di ventura.                           24
                        Per che la voglia mia sarìa contenta
                           d’intender qual fortuna mi s’appressa;
                           ché saetta previsa vien più lenta».

Il restante della terzina iniziale del XVII del Paradiso, attinto dalle Metamorfosi, serve solo a dare una veloce e incisiva pennellata per tratteggiare il profilo essenziale del personaggio in questione, dal confronto con il quale, come si diceva, deve spiccare l’incontenibile voglia di sapere con certezza, fuori da ogni reticenza e ambiguità, la consistenza effettiva di quanto in precedenza, secondo i casi e i luoghi, gli è stato ventilato o minacciato, in prospettiva di una sua sicura cacciata da Firenze.

            Successivamente, quando Cacciaguida darà la risposta desiderata, dirà, senza girarci intorno, che Dante è destinato a doversene partire da Firenze; poi prospetterà un quadro del futuro, con tante amarezze per l’ingiustizia patita e per il girovagare qua e là per l’Italia; metterà in conto però anche la buona fama, dovuta alla coerenza e all’ingegno, che accompagnerà l’esule; dirà pure che non si deve serbare rancore, che si deve perdonare…; il tutto inizia con una terzina lapidaria, che con poche parole riassume già tutto: “di Fiorenza partir ti convene”. L’amara conclusione, che per altri aspetti è anche un prologo e ha tutto un suo seguito, è sua volta introdotta da altre poche parole, contenenti un altro riferimento al mito:

                        Qual si partio Ipolito d’Atene                                   46
                           per la spietata e perfida noverca,
                           tal di Fiorenza partir ti convene.

            Il personaggio mitico, adesso evocato come termine di paragone, questa volta entra in scena, per così dire, con il proprio nome: Ἰππόλυτος (Ippolito), che, fra ‘cavallo’ (híppos) e ‘sciogliere’ (lýō), potrebbe venire a significare ‘cavaliere veloce’.

            Fu un figlio di seconda categoria di uno dei tanti letti di Teseo(5), eroe avventuroso e disinibito. Ragazzo di straordinaria bellezza, di lui s’invaghì follemente Fedra (Φαίδρα, Phædra, ‘Splendente’), una delle mogli di turno di tanto padre e, quindi, matrigna (noverca) del giovane. Ippolito resistette alla proposta incestuosa in modo sprezzante e offensivo, forte della sua verginità, essendosi tutto dedicato al culto di Artemide, la dea della caccia.

            Fedra ne fece una malattia e giunse al suicidio, non senza aver prima rovinato il suo idolo impossibile, accusandolo di aver lui attentato alla sua intemerata fedeltà di sposa. Teseo ci cascò, maledisse Ippolito, che appunto, dovette allontanarsi da Atene, innocente e calunniato.

            Anche a lui andò a finir male: la maledizione del padre, la ruggine fra famiglie di origine divina, – con i loro immortali antenati in eterna e anche sleale competizione tra di loro -, si riversarono sullo sventurato ragazzo, che fu sbalzato dal cocchio e strascinato dai cavalli imbizzarriti, facendo scempio del suo corpo.

            Il finale vuole che il disgraziato morente trovasse il perdono del padre, perché Artemide (“deus ex machina”: meglio tardi che mai!) intervenne a dichiararne l’innocenza, per poi subito andarsene per i fatti suoi, senza assistere alla morte del suo devoto, dal momento che, con ovvia ed elementare evidenza, è alquanto disdicevole per gli immortali assistere alla morte dei mortali. (continua)

Note
(1) Quanto all’accento tonico: in greco si pronuncia come l’abbiamo traslitterato: Klyménē; alla latina Clýmĕne. Dante seguì la regola di Alessandro di Villedieu (n. 1175, m. 1240):
                        Omnis barbara vox non declinata latine
                        accentum super extremam servabit acutum (Doctrinale, vv. 2307-2308).
                        [Ogni parola straniera non declinata in latino
                        mantiene l’accento acuto sull’ultima sillaba].
La regola riguardava principalmente le voci ebraiche, ma con possibilità di estendersi anche a parole di origine greca; dunque, nel nostro caso: Climené. Successivamente, nella Regia Parnassi (Parigi, 1679: dizionario prosodico latino) comparve l’esametro:
                        Græca per Ausoniæ fines sine lege vagantur,
                        [I (vocaboli) greci vagano senza legge in terra d’Ausonia (Italia)],
con cui si affermava che i nomi greci potevano essere usati in versi latini senza regole fisse di prosodia; ovviamente ne segue l’oscillazione della pronuncia di parole greche, secondo che si segua l’accentazione latina o quella greca (per es., tragèdia e tragedìa; scleròsi e sclèrosi, ecc.). Il tutto per dire che in italiano l’uso comune in molti casi ha fatto la sua scelta, ma Climene non è d’uso abituale e perciò ognuno faccia come meglio crede.
(2) Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, II, 1
(3) Epafo si fa derivare da ἐφάπτω (epháptō), che vuol dire palpare, toccare, accarezzare. La madre, Io, era stata trasformata in una mucca per gelosia; Zeus, con le sue carezze, le restituì la sua figura umana e, dato che c’era, tra una carezza e l’altra le regalò anche un figlio: Epafo, ‘Accarezzato’, per l’appunto.
(4)                     Qual venne a Climené, per accertarsi                        1
                           di ciò ch’avea incontro a sé udito,
                           quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
(5) Θησεύς, (Thēséos; latino Thēsĕŭs). Viene a dire ‘Fondatore’, dal verbo τίθημι (títhēmi), o anche ‘legislatore’, sempre dallo stesso etimo, passando da θεσμός (thesmós), che significa ‘legge’. Combatté contro le Amazzoni – e da Ippolita, loro regina, ebbe Ippolito -, contro i Traci e a Creta, dove uccise il Minotauro, potendo ritrovare la via di uscita dal labirinto, grazie al filo di Arianna. Fu l’eroe fondatore degli Ioni e venne considerato dagli Ateniesi, di cui fu il decimo re, come il loro grande riformatore, padre della patria e della democrazia in Occidente.

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