Libertà. Esilio di Dante: prescienza e libertà

PIERO DELLA FRANCESCA, Resurrezione,
Sansepolcro, anni sessanta del XV secolo

Qui immolatus jam non moritur, sed semper vivit occisus(1).
            Dante (qualcuno dirà: alla buon’ora!) tocca il problema della prescienza nel più volte ricordato Canto XVII del Paradiso, tramite Cacciaguida, con due terzine:

                        «La contingenza, che fuor del quaderno                   37
                         de la vostra matera non si stende,
                           tutta è dipinta nel cospetto etterno:
                        necessità però quindi non prende                              40
                           se non come dal viso in che si specchia
                           nave che per corrente giù discende.

[Ciò che può essere o non essere (la contingenza), che non va oltre (non si stende fuor de) l’ambito (quaderno) della vostra materialità, è tutto registrato nel pensiero di Dio (tutta è dipinta cospetto etterno): però per questo (quindi) non diventa necessario (necessità non prende), se non come una nave che discende giù portata dalla corrente, che non è trascinata dalla vista di chi la guarda (viso in che si specchia).]

            È la trasposizione in immagine di quanto affermato da san Tommaso e riportato in nota da tutte le edizioni critiche della Commedia. In buona sostanza, viene a dire che Dio non tramuta il contingente, o il possibile che dir si voglia, in necessario e viceversa per il semplice fatto di conoscere tutto dall’eternità: sulla capacità di convincimento di questa tesi ci asteniamo da ogni commento. A Dante, questa volta, vorremmo dire che ci convince di più quando, come già anticipato e accennato nel nostro precedente articolo, nel Purgatorio, per bocca di Virgilio afferma(2):

                        State contenti, umana gente, al quia;                        37
                           ché se possuto aveste veder tutto,
                           mestier non era parturir Maria;

[Uomini, accontentatevi del ‘quia’, perché, se aveste potuto vedere tutto, non sarebbe stato necessario che Maria partorisse (Gesù)].

            Uno avrebbe anche il diritto di domandare: ma detto tutto quello che riempie queste due o tre facciate, per arrivare a ribadire che una conclusione non si trova o, almeno, non si è ancora trovata; che non può stare negare la coscienza umana, ma che non si possono neppure negare quegli attributi senza i quali non ha senso parlare di Dio, anche se paiono inconciliabili con il libero arbitrio; detto pure che non se esce con giri di parole, che anzi farebbero indispettire quel tecnico, di cui si diceva, (chi sa se ve ne  rammentate più!(3)), e ancora di più i genitori di quella ragazza travolta da una macchina; allora? Allora io sto con mia nonna, che aveva in casa (ora ce l’ha mia sorella) una Divina Commedia monumentale, con le illustrazioni del Doré: di certo, tutta intera non l’avrà mai letta, e probabilmente neanche la terzina del Purgatorio sopra e precedentemente richiamata. Lei, con la saggezza e la semplicità dei buoni popolani, diceva: “Unn’è stato bene Chi poteva stare….”, che voleva dire che bisogna rassegnarsi a sopportare le nostre croci, ma con una premessa: non perché tanto non c’è nulla da fare, non si scampa,… ma perché c’è a monte un Esempio. Ecco fatto pari: non si è spiegato nulla razionalmente, ma se Maria ha partorito, qualcosa vorrà dire.

Note
(1) Prefazio pasquale III
            “Egli, sacrificato (sulla croce) più non muore (cfr. Rm 6,9),
              ma vive immortale con i segni della passione.
                                                                                              (cfr. traduzione CEI)
(2) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio III, 37-39
            ‘Quia’, nella filosofia medievale, si riferiva alla fattualità esperienziale, ossia alla possibilità di prendere atto di ciò che c’è, senza la pretesa di conoscere il perché dei fatti e delle cose, se non in un ambito limitato. Si ricordi la sentenza:

                        «… vuolsi così colà dove si puote
                           ciò che si vuole, e più non dimandare». (Inferno, III, 95-96; V, 23-24)

BEATO ANGELICO, Annunciazione, Cortona, 1430

            L’Incarnazione è la piena risposta su un piano diverso, non della razionalità, ma della fede. I problemi dell’esistenza sono tanti, oltre quello della possibilità o meno di scandagliare il futuro; ma possono ricondursi ad un unico problema fondamentale: perché esistere, limitata o eterna che sia la vita.

            L’Incarnazione afferma il valore certo e assoluto dell’esistenza, della vita, proponendo un Modello: se la vita umana non avesse un misterioso autentico valore appunto, la Vita divina non l’avrebbe unita a sé. È il Modello che permette di andare oltre il ‘quia’.

            Tralasciamo di proposito l’opinione che reputa che non sarebbe stata necessaria l’Incarnazione nel caso che a Adamo fosse stato consentito, invece che vietato, l’accesso all’albero della scienza del bene e del male: in tal caso, infatti, non ci sarebbe stato alcun peccato e, quindi, non ci sarebbe stato bisogno di redenzione. Passiamo anche oltre l’opinione che arriva alle stesse conclusioni, a partire dall’ipotesi che una piena e completa conoscenza avrebbe svelato a Adamo l’inganno diabolico, mettendolo così nella condizione di opporsi alla tentazione.

            Ci limitiamo ad osservare che redenzione e salvezza non sono un tutt’uno: sempre che Dio lo voglia, la redenzione si rende necessaria per riacquistare quel che è andato perduto e, dunque, quella dipende dal peccato che ha sciupato tutto; la salvezza, – sempre che Dio la voglia -, comporta per gli uomini la filiazione divina adottiva, che si realizza necessariamente mediante l’Incarnazione, ossia se il Figlio si associa gli uomini come veri fratelli “carnali”, rendendoli, conseguentemente, figli dell’unico Padre.

            Questo la nonna non lo diceva, ma un frate cappuccino lo deve dire.

(3) ALESSANDRO MANZONI, I Promessi Sposi, XXIX, 50

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