ESILIO & ESILIATI. Esilio di Dante: prescienza e libertà

                                               “State contenti, umana gente, al quia
          ché se potuto aveste veder tutto,
                                                mestier non era parturir Maria;…” (1)

            Profezia, prescienza, predestinazione non son proprio la stessa cosa, ma un po’ parenti tra di loro, sì; comunque, se non inconciliabili, sono di sicuro concetti in antinomia con libertà, libero arbitrio e simili. Fior di teologi e di filosofi si sono cimentati a tentare di trovare un possibile accordo, con sottili disquisizioni e fornendo pareri e sentenze “d’una certezza e d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico(2)”. Noi non ci addentriamo in questo campo “per due ragioni che il lettore (ammesso che ce ne sia uno), troverà certamente buone: la prima, che(3)” non ci sentiamo onestamente in grado di affrontare questi problemi, che, per noi, come l’entelechia, ma anche “come l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose non” paiono essere “cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere(4)”, neppure presi in sé, uno alla volta, come termini di discussione. La seconda, che il tempo si è incaricato di dimostrare che certi intelletti ancora più critici non sono rimasti paghi: chi rivoltando le conclusioni certe e chiare precedentemente raggiunte; chi lasciando perdere e invitando a lasciar perdere ogni cosa, convinto che, se non ci si sono cavate le gambe, dopo che in merito è stato detto tutto e il contrario di tutto, allora vuol dire che la soluzione non c’è o che il problema è mal posto: anche questa può essere un’idea, tanto il risultato cambia poco.

            Siccome prima o poi vogliamo concludere sull’esilio di Dante, per poi far un cenno anche ad almeno un’altra vicenda di esilio e di esiliati, si pensava di andare finalmente al nocciolo della questione, soffermandoci sul cuore del Canto XVII del Paradiso, riannodandosi alle profezie contenute nell’Inferno e nel Purgatorio, e poi procedere, che so: verso il Nabucco?

            Le divagazioni fin qui fatte, motivate dall’opportunità di delineare i profili personali dei protagonisti e richiamare luoghi e circostanze storiche degli eventi, dovrebbero essere, ragionevolmente, terminate. Non è proprio così e, anche in questo caso, per due motivi. Dante non passa sopra al problema con cui chiudevamo la precedente puntata e abbiamo iniziata questa: perciò, senza rimangiarsi, quanto scritto nel primo capoverso, magari con un diverso approccio, però il rapporto profezia-libertà va comunque considerato. Poi ci sono, nel medesimo Canto XVII, accenni relativamente sobri, ma importanti, a due personaggi mitologici, che potrebbero non essere notissimi a tutti: come dire, insomma, che di digressioni, approfondimenti o quel che siano, ne facciamo altre due ancora. E via con la prima digressione.

            “Un vecchio sventurato aveva un figlio unico coraggioso e appassionato di caccia: in sogno lo vide ucciso da un leone.
            Temendo dunque che il sogno dicesse in qualche modo la verità, costruì una stanza bellissima al piano superiore e lì, introdottovi il figlio, lo teneva sotto custodia. Dipinse, poi, nella stanza, per diletto del figlio, animali di ogni genere, tra i quali c’era anche un leone. Il ragazzo però, vedendo tutto ciò, era ancor più afflitto.
            E alla fine, fermo vicino al leone, disse: «Belva dannata, per colpa tua e del sogno ingannatore di mio padre sto rinchiuso in questa casa come in una prigione; che ti dovrei fare?». E detto ciò, colpì con un pugno la parete per accecare il leone.
            Ora una scheggia conficcatasi nel suo dito produsse un gonfiore ed una infiammazione fino all’inguine; la febbre poi sopraggiunta subito gli troncò la vita. Il leone, dunque, anche così portò via il giovane, per nulla aiutato dall’espediente del padre. La favola dimostra che nessuno può evitare quello che deve accadere(5)”.

            Che si tratti di un sogno premonitore, come in questa favola di Esopo, o che, per analogia, si tratti di una visione o di un oracolo, comunque di un tipo di profezia che viene comunicata a qualcuno, l’insegnamento che se ne ricava è che non si sfugge al destino. Nella novella citata c’è posto per una certa relativa libertà: per esempio, non necessariamente il padre doveva costruire una specie di prigione dorata per il figlio e nemmeno doveva necessariamente dipingere un serraglio; ma se il destino è quello, sarebbe successo qualcos’altro, più o meno collegato al leone, e il finale sarebbe stato tragico ugualmente. Senza voler fare concorrenza a Esopo, immaginiamo un bello scudo lavorato, con al centro una testa di leone: il ragazzo inciampa, ci batte la testa, ed ecco fatto: il leone l’ha ammazzato.

            A questa visione fatalistica non sfugge davvero nessuno, dèi e semidèi compresi. Ovviamente, eliminate le credenze pagane negli “dèi falsi e bugiardi(6)” il problema rinasce e perfino si complica. Infatti, qualsiasi posizione si assuma: religiosa, filosofica, atea, agnostica,… resta in ballo la responsabilità morale personale. Se nel destino è scritto che Achille debba partecipare alla guerra di Troia, potrà pur fare il pazzo quanto vuole, ma alla guerra ci andrà comunque e con quel suo caratterino, con “l’ira funesta che infiniti addusse | lutti agli Achei(7)”; farà il diavolo a quattro e ammazzerà inevitabilmente Ettore: poteva fare diversamente? Se nel destino è scritto che Tizio (qui metteteci un qualsiasi nome di dittatore recente o contemporaneo: c’è solo l’imbarazzo della scelta; indi fate seguire l’elenco delle sue nefandezze), in fondo, lui che colpa ne ha? Va a finire che non ha più senso parlare di bene e di male, in barba alla sinderesi o coscienza che dir si voglia.

            Come se non bastasse, il problema si complica ulteriormente per il monoteismo creazionista e provvidenziale. Ricordo un caso: per un certo periodo, un tale ci dava una mano, come tecnico informatico, il sabato pomeriggio; una volta non venne senza avvisare prima, come di solito faceva, se aveva avuto altro da fare. Quando tornò era provato e aveva una faccia strana; alla fine buttò fuori quello che aveva in corpo: “Sabato passato sono andato a i’ funerale della figliola d’un mi’ amico: diciassett’anni, come la mi’ figliola; andavano a scuola insieme. Sortiva di casa: un disgraziato l’ha presa ’n pieno sulle strisce e l’ha fatta fòri su i’ colpo. Quando vo di là, c’ho da chiedegli diverse cose: e sarà bene che ’gli abbia la risposta pronta!”. Son parole anche un po’ grosse, dette apposta con un certo cipiglio, per non permettere alla voce di incrinarsi e non mettersi a piangere; valgono più di tante teorie e sono la drammatizzazione vissuta del contrasto tra una Provvidenza creduta (altrimenti non si parla di andar di là, come da noi s’intende), e una tragedia patita. Qualcun altro, per buttarla in burletta, come se fosse possibile, scuotendo il capo e stringendosi nelle spalle borbotta: “Mah! e si vede che l’Angiolo custode dovea esser andat’in ferie!”. (continua)

Note

(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio III, 36-39
            Accontentatevi, uomini, della rivelazione,
               perché, se aveste potuto vedere tutto,
               non sarebbe stato necessario che Maria partorisse;
(2) Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, XI, 28
(3)                                                             o. c., Introduzione, 7
(4)                                                             o. c., XXVII,23
(5) ESOPO, Favola 295
(6) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno I, 72
(7) Omero, Iliade, (Vincenzo Monti, I,2-3)

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