ESILIO DI DANTE: DIVAGAZIONI

ATTUALIZZAZIONI, PREVISIONI E CONSEGUENZE

Sunt lacrimæ rerum et mentem mortalia tangunt(1).

            Il 28 luglio 1914 scoppiava la prima guerra mondiale; l’Italia entrò nel conflitto il 24 maggio dell’anno successivo: agli storici,  agli strateghi, ai politici e politologi, e a quanti sono o siano più o meno esperti e addetti ai lavori, va riconosciuto il diritto a riempire tutto lo spazio che si sono ritagliati in merito, e la libertà, a loro e ad altri volenterosi, di occuparne ancora quanto vorranno o potranno.

            La si chiamò anche “la grande guerra”; prima che finisse (fu l’11 novembre 1918: più di quattro anni di distruzione e di morte!), il 1° agosto 1917, Benedetto XV le dette l’unico nome che valesse a inquadrarla nella sua atroce e tragica follia: “una inutile strage”. Non saprei dire cosa potesse immaginare il papa per i tempi a venire; certamente, anche se avesse supposto e previsto conseguenze gravi, controversie lunghe e difficili da appianare, e avesse anche paventato l’innesco di nuove rovinose micce esplosive, oggettivamente non poteva usare l’ordinale “prima”, riferito alla guerra, se non in senso ristretto, cioè nel senso che una guerra con un coinvolgimento globale, planetario, prima d’allora, non c’era mai stata(2).

            Noi no: noi sappiamo che “primo” può, purtroppo, non voler dire “unico”. Dopo il primo conflitto mondiale venne il secondo, preceduto da miseria morale e materiale, imbastito di sogni che erano piuttosto incubi, intessuto di politiche bellicose, colonialiste, ritorsive, repressive e soppressive: tutto perché una maggioranza sufficientemente egoista e fortemente illusa offrisse incondizionato appoggio e sconsiderato consenso.

            Sempre, in questi quadri generalissimi, si inserisce la piccola quotidianità individuale, fatta di persone miti e di profittatori, di onesti e di mascalzoni, di generosi fino al sacrifico e di biechi assassini; ma fatta anche, per la circostanza, d’un’altra componente, sempre cattiva, però diversa: non propriamente istintiva o spontanea, bensì indotta, provocata e quasi imposta dal cumulo delle aberrazioni imperanti e delle sofferenze patite; dal rischio di rimetterci la pelle ogni momento: la guerra appunto, il crimine dei crimini, generatore, a sua volta, di crimini a valanga. Singole persone, famiglie, popolazioni intere fortunosamente scampate, ridotte, secondo i casi, a fuggiaschi, esiliati, profughi, irredenti, conquistati; poi tanti, troppi morti sfigurati e senza nome.

            Se le tragedie si misurano sulla vastità delle proporzioni, allora diventano quasi irrilevanti Montaperti(3), o Campaldino(4), o la Lastra(5), tanto per dire di battaglie combattute immediatamente prima o durante la vita di Dante. Anche le vittime, i fuorusciti, le confische sembrano realtà sbiadite per il tempo lontano e la relativa contenutezza. Ma chi ci passa di persona! Non avrà magari la nobile potenza evocativa di Dante e sarà anche vero che la sofferenza si fa più acuta dove più sensibile è l’animo…. Potrebbe però anche essere vero che il dolore è più intenso, attanaglia e stravolge, proprio quando è sordo, incapace di ridirsi a se stesso come patetica narrazione e come attesa paurosa e costernata; chiuso in una smorfia grottesca o rilasciato ad una assenza inebetita.

            I nonni hanno il dovere di raccontare ai nipoti e i nipoti hanno il dovere di ascoltare e memorizzare la storia dei funesti orrori ed errori del passato, per vedere se, – non si sa mai -, si possa smettere di riproporsi ancora una volta di fare in modo che in futuro non risucceda più,…  perché ogni volta che si rinnova un proposito significa che quello precedente è stato disatteso o, peggio ancora, che si è ricaduti nel precedente errore. Inoltre dovrebbe essere di ammonimento e di una qualche non trascurabile utilità riandare su quei tanti presupposti, che non avranno provocato deterministicamente il guaio, e tuttavia hanno dato luogo a prepararne il terreno adatto.

            Già qui ci si addentra nel campo della profezia ‘post eventum’, ossia ‘a cose fatte’. Si è infatti indotti a pensare che una valutazione più attenta, prudente, lungimirante, benevola o che so io: insomma, una valutazione come avrebbe dovuto essere, e che di fatto non c’è stata, sarebbe stata in grado di stornare la catastrofe, perché sarebbe stata plausibilmente prevedibile e perciò stesso scansata.

            C’è poi il caso della profezia ‘a cose fatte’ nel senso più comune e più stretto del termine: consiste nel collocarsi fittiziamente indietro nel tempo e ‘profetizzare’ non solo le cause e concause di un evento futuro, bensì anche anticiparne le conseguenze e magari in modo molto dettagliato, forti della scienza del poi. È questo un espediente letterario che dà adito ad una narrativa assai suggestiva, in quanto chi l’impiega si può immaginare di scandagliare nei segreti pensieri e sentimenti dell’ipotetico profeta, – coincidente o diverso rispetto all’autore -, stretto nella morsa tra l’essere già al corrente e l’impossibilità di intervenire per deviare il corso degli eventi, diventato ineluttabile: siamo immersi nella problematica del rapporto tra prescienza e libero arbitrio, che non è creata, – si badi -, dall’artificio letterario: ha una sua consistenza oggettiva, che semmai può balzare agli occhi con maggiore immediatezza, secondo lo stile che si sia adottato.

            Ci spenderemo prossimamente qualche parola, prima di riprendere il tema “esilio ed esiliati”. (continua)

NOTE

(1) PUBLII VERGILII MARONIS, Æneidos Libri XII, Liber I,462
            Letteralmente in italiano suona: “Sono le lacrime delle cose, e le cose mortali toccano la mente”; Augusto Rostagni traduce: “La storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove la mente”.

(2) Tornò tristemente di moda, in certi ambienti, il virgiliano emistichio:
                        “sic vos non vobis” (così voi, non per voi),
diventato un motto abbastanza noto e ricorrente, quasi un proverbiare pieno di malinconia.
            Per chi non sapesse o non ricordasse come stanno le cose, il fatto è che Virgilio aveva scritto una notte sulla porta del palazzo dell’Imperatore Augusto il seguente distico anonimo:
                        “Nocte pluit tota, redeunt spectacula mane:
                         Divisum imperium cum Jove Cæsar habet”.
                        (“È piovuto tutta la notte, i giuochi riprendono domattina:
                        Cesare ha il comando condiviso con Giove”.)
            Un poetucolo, a nome Batillo, si spacciò per autore, e ne ricevette in contraccambio da Augusto lodi e danari. Allora Virgilio tornò a scrivere sulla porta per quattro volte di seguito le parole Sic vos non vobis. Augusto volle sapere che cosa ciò significasse: nessuno seppe spiegare l’enigma, e finalmente, quando la curiosità di tutti era eccitata, Virgilio stesso fornì la chiave dell’indovinello, ripetendo dapprima il distico rubatogli, seguito dal verso:
                        “Hos ego versiculos feci, tulit alter honores”,
                        (“Ho fatto io questi piccoli versi, un altro ne ha riportato gli onori)”;
quindi completò i quattro emistichi in questa forma:
                        “Sic vos non vobis nidificatis aves.
                         Sic vos non vobis vellera fertis oves.
                         Sic vos non vobis mellificatis apes.
                         Sic vos non vobis fertis aratra boves.”
                        (“Così voi, non per voi, fate il nido, uccelli.
                           Così voi, non per voi, producete la lana, pecore.
                           Così voi, non per voi, producete il miele, api.
                           Così voi, non per voi, portate l’aratro, buoi.”)
            Tornò, si diceva, tristemente attuale con riferimento alle madri (per esempio, come si dicesse:
                        “Sic vos non vobis gignitis hanc subolem.”, ossia
                        “Così voi, non per voi, generate questa prole.”),
le quali partorivano i figli appunto, ma per mandarli a morire in trincea, nella carneficina degli assalti o, anche spesso, passati per le armi dai geniali e valorosi generali Cadorna.

(3)                     … «Lo strazio e ’l grande scempio
                           che fece l’Arbia colorata in rosso,…» (Inferno, X, 85-86);
un po’ come la prima piaga d’Egitto, salvo la diversa portata tra il Nilo e l’Arbia, e che là si trattò di un miracolo prima, e poi di un sortilegio; qua, invece, di mattanza.

(4) Cfr. Purgatorio, V, 92

(5)                     “Di sua bestialitate il suo processo
                           farà la prova; sì ch’a te fia bello
                           averti fatta parte per te stesso.” (Cacciaguida, Paradiso, XVII,67-69)

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