ESILIO DI DANTE: LETTERA AD UN AMICO FIORENTINO

“Non ammirerò forse dovunque l’immagine del sole e delle stelle?”

            “A tutti i poeti manca un verso” e, – facendo a intendersi, ossia in senso figurato -, almeno una volta, mancò anche a Dante, che fu di certo, a dir poco, ingenuo nel credere che una sua ambasceria a Roma avrebbe potuto appianare appena un po’ le cose tra Bianchi e Neri: le cose, così, tanto per non dire altro; perché le cose, – appunto per il gusto d’insistere e di ripetere -, sempre peggiorando, giunsero a un punto tale, che a un certo momento si rese necessario addirittura inventare un vicolo per eliminare la contiguità dei palazzi dei Cerchi e dei Donati nel Corso di Firenze, per timore che, abbattendo una parete, gli uni potessero ammazzare gli altri nel sonno. Fu chiamato il Vicolo dello Scandalo(1).

            Comunque, o fosse il papa o chi per lui, le cose a Roma andarono per le lunghe e per l’ambasciatore dei Bianchi arrivò il peggio.

            Diversi abboccamenti precedenti con Bonifacio VIII e le intromissioni non neutrali dei delegati del papa, avevano di fatto già risolto il problema a favore di una delle due parti in lotta e portarono all’assoluta supremazia dei Neri nell’ottobre del 1302. Fra le vittime condannate proditoriamente in contumacia, per la trappola tesa d’accordo fra il papa e il podestà Cante Gabrielli, ci fu Dante, condannato al rogo: il Gabrielli, al termine del suo mandato, poteva vantare al suo attivo centosettanta condanne a morte e seicento espulsioni di guelfi bianchi (detto per inciso, non è chi non capisca il successivo e progressivo guardare interessato dei Bianchi verso i ghibellini(2)).

            Il giorno 19 maggio1315, dopo 12 anni di peregrinazioni passati dal Poeta a elemosinare ospitalità e riparo in giro per l’Italia, il Comune di Firenze approvava un’amnistia per coloro che erano stati esiliati o carcerati negli anni addietro, nessuno escluso. Le condizioni, – basta informarsi -, sono umilianti e onerose, indegne e impraticabili per chi ha coscienza di essere “exul inmeritus(3)”: l’esule senza colpa non rientrerà più in Fiorenza e morirà a Ravenna il 14 settembre 1321, poco più che cinquantaseienne, forse di malaria.

            Nella Epistula XII, che possediamo grazie al Boccaccio, il “florentinus natione, non moribus(4)” potè esprimere tutta la sua amarezza, delusione e indignazione per quella proposta di amnistia, di cui era stato informato.

            Con un precedente decreto del 2 settembre 1311 aveva usufruito di amnistia un tal Ciolo degli Abati, a quei tempi un abbastanza noto malfattore: a Campaldino un suo cavallo era stato danneggiato e ne chiedeva, a tenor di legge, il risarcimento al Comune, facendo conto di dimenticarsi della gabella da pagare sul vino. Ne nacque un proverbio: È il tempo di Ciolo Abate, chi ha dare, addomanda. In quella lettera Dante se ne ricorda per sottolineare l’assurda equiparazione che ne deriverebbe, sottostando all’ingiustizia, tra una persona onesta e un poco di buono.

            Il testo in latino, – trascritto con la grafia classica, per agevolarne la lettura, insieme con una sua possibile traduzione, (quest’ultima qui di seguito, l’originale in nota(*)) -, riportarli è un assoluto dovere di giustizia, cui non possiamo né vogliamo sottrarci, nella speranza di contribuire alla sua conoscenza e diffusione. Come viene affermato in chiusura della lettera in parola, certo il pane non gli mancò, ma sapeva di sale; sotto quale cielo si venne a trovare, poté comunque ammirare l’immagine del sole e delle stelle, tanto da poterli cantare, come sa fare chi ha occhi, talento e fede; non gli mancò la pena né il piglio per affrontarla: gli mancò “ogne cosa diletta | più caramente(5)”.

[All’amico fiorentino]

            Nelle vostre lettere ricevute con la debita riverenza e affetto, ho con animo riconoscente e con diligente attenzione appreso quanto vi stia a cuore il mio ritorno in patria; e quindi tanto più strettamente mi avete obbligato, quanto più raramente agli esuli accade di trovare amici. In particolare richiedo affettuosamente che la mia risposta al comunicato di quelli sia vagliata sotto il vostro parere, prima che sia giudicata, anche se forse non sarà quale la pusillanimità di qualcuno vorrebbe.

            Ecco dunque ciò che per mezzo delle lettere vostre e di mio nipote e di parecchi altri amici mi fu comunicato per mezzo del decreto da poco emanato in Firenze riguardo l’assoluzione dei banditi: che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi sopportare la vergogna dell’offerta, potrei essere assolto e rientrare con effetto immediato. In verità nella comunicazione ci sono, o padre, due cose degne di derisione e mal consigliate; dico mal consigliate a causa di coloro che hanno esposto tali cose, infatti le vostre lettere redatte con più discrezione e con più meditazione non contenevano nulla di tutto ciò.

            È dunque questa l’assoluzione concessa con la quale è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha patito l’esilio? Questo ha meritato un’innocenza nota a tutti? Questo ha meritato il sudore e la fatica ininterrotta nello studio? Sia lontana da un uomo imparentato alla filosofia una bassezza d’animo tanto sconsiderata da sopportare di consegnarsi quasi fosse un galeotto, a mo’ di un Ciolo qualunque e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia che, dopo aver patito fior fior di offese, paghi il suo denaro a quelli stessi che l’hanno offeso, come se lo meritassero!

            Non è questa la via del ritorno in patria, padre mio; ma se prima o poi per mezzo di voi o di altri ne verrà trovata un’altra che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, quella accetterò a passi svelti; di conseguenza se per nessuna tale via s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E perché no? Non ammirerò forse dovunque l’immagine del sole e delle stelle? Non potrò forse indagare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo, a meno che prima non mi restituisca disonorato e ignominioso all’infimo popolo e alla città di Firenze? Né di certo mi mancherà il pane.

Dante Alighieri, Epistulae, XII

(continua)

NOTE

(1) Chiamato attualmente Vicolo del Panico; va dal Corso (49r) a Via degli Alighieri.

(2) UGO FOSCOLO, ne I Sepolcri, al v. 174 chiamerà Dante “Ghibellin fuggiasco”.

(3)         “Exulanti Pistoriensi Florentinus exul inmeritus per tempora diuturna salutem et perpetuæ caritatis ardorem”. Incipit della Epistola III: “All’esiliato Pistoiese (Cino da Pistoia) il Fiorentino confinato immeritamente augura per lunghi anni salute e perpetua fiamma di carità”.

            “Universis et singulis Ytaliæ Regibus et Senatoribus almæ Urbis nec non Ducibus Marchionibus Comitibus atque Populis, humilis ytalus Dantes Alagherii florentinus et exul inmeritus orat pacem”. Incipit della Epistola V: “A tutti e singoli i Re d’Italia, ai Senatori dell’alma Urbe, ai Duchi, Marchesi, Conti e Popoli, l’umile italiano Dante Alighieri fiorentino e incolpevolmente bandito prega pace”.

            “Dantes Alagherii florentinus et exul inmeritus scelestissimis Florentinis intrinsecis”. Incipit della Epistola VI: “Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa agli scelleratissimi Fiorentini che sono in città (cioè, i Neri)”.

            “Sanctissimo gloriosissimo atque felicissimo triumphatori et domino singulari domino Henrico divina providentia Romanorum Regi et semper Augusto, devotissimi sui Dantes Alagherii Florentinus et exul inmeritus ac universaliter omnes Tusci qui pacem desiderant terræ, osculum ante pedes”. Incipit della Epistola VII: “Al santissimo, gloriosissimo e felicissimo trionfatore e singolare signore, messer Arrigo, per la divina provvidenza Re dei Romani e sempre Augusto, i suoi devotissimi Dante Alighieri fiorentino, immeritamente bandito, e tutti universalmente i Toscani, che desiderano la pace della terra, baciano i piedi”.

(4) “Fiorentino di nascita, non di costumi” (Epistola XIII a Cangrande della Scala).

(5) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, Paradiso, XVII, cfr. 55-56.

(*)         [Amico Florentino]

            In litteris vestris et reverentia debita et affectione receptis, quam repatriatio mea curæ sit vobis et animo, grata mente ac diligenti animadversione concepi; et inde tanto me districtius obligas-tis, quantum rarium exules invenire amicos contingit. Ad illarum vero significata responsio, etsi non erit qualem forsan pusillanimitas appeteret aliquorum, ut sub examine vestri consilii ante judicium ventiletur, affectuose deposco.

            Ecce igitur quod per litteras vestras meique nepotis nec non aliorum quamplurium amicorum, significatum est mihi per ordinamentum nuper factum Florentiæ super absolutione bannitorum quod si solvere vellem certam pecuniæ quantitatem vellemque pati notam oblationis, et absolvi possem et redire ad præsens. In qua quidem duo ridenda et male præconsiliata sunt, pater; dico male præconsiliata per illos qui talia expresserunt, nam vestræ litteræ discretius et consultius clausulatæ nihil de talibus continebant.

            Estne ista revocatio gratiosa qua Dantes Alagherii revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hocne meruit innocentia manifesta quibuslibet? Hoc sudor et labor continuatus in studio? Absit a viro phylosophiæ domestico temeraria tantum cordis humilitas, ut more cujusdam Cioli et aliorum infamium quasi vinctus ipse se patiatur offerri! Absit a viro prædicante justitiam ut perpessus injurias, injuriam inferentibus, velut benemerentibus, pecuniam suam solvat!

            Non est hæc via redeundi ad patriam, pater mi; sed si alia per vos ante aut deinde per alios invenitur quæ famæ Dantisque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam talem Florentia introitur, numquam Florentia introibo. Quidni? Nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? Nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub cælo, ni prius inglorium imo ignominiosium populo florentinæque civitati me reddam? Quippe nec panis deficiet.

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