ESILIO DI DANTE: “COME È DURO CALLE”

DOMENICO DI MICHELINO, La Divina Commedia illumina Firenze, 1465.
Santa Maria del Fiore, Firenze

Lasciarsi andare,
perdersi in quella specie di nebbia sottile che ovatta e avvolge ricordi che affiorano,
indistinti timori, vaghi rimpianti; speranze accarezzate, accantonate, ma non perdute….

Un Bonifacio con il posto già pronto all’Inferno, gratificato dell’appellativo di principe dei nuovi Farisei (leggansi cardinali e prelati vari),… è quanto vomitato contro di lui da due anime perdute; Cacciaguida, nel Paradiso, tiene un ben altro contegno: lamenta che nella curia romana si è fatto di Cristo un mercato abituale e continuato, ciò che è assai più sobrio nelle parole, ma parecchio più grave nel contenuto, proprio perché a dirlo è uno spirito beato.

Tutto vero? Forse, – e anche probabilmente -, no; le tinte possono essere state caricate e rese più fosche per l’aver accordato credito a certe voci messe in circolazione, non necessariamente sempre e del tutto oggettive: e questo non solo a proposito di Bonifacio VIII. Gli storici sembrano andare tutti d’accordo nel vedere in questo papa l’ultimo e più convinto assertore della concezione teocratica del potere; per il resto, basta prendere due commentatori di diverso orientamento, – come, per dire, potrebbe essere un contemporaneo ‘guelfo nero’ e un post moderno ‘ghibellino’, ossia un fanatico papista da un lato e un convinto laico laicista dall’altro -, per accorgersi subito che ci sono sostanzialmente due vedute: una dice che sono state accolte e fatte proprie alcune posizioni preconcette, delle quali si deve tuttavia apprezzare la forza poetica con cui sono esposte, ma non sottoscriverle; l’altra, senza nemmeno minimamente far questione sull’intrinseco valore artistico, conclude che, tutto sommato, c’è dentro molto più di verità che non di animosità personale.

La profezia del nonno del nonno, riassunta in breve, viene a dire: «Caro nipote del mio nipote: sì, per te c’è l’esilio bell’e pronto che ti aspetta; non toccherà solamente a te, ma anche a tanti altri, con i quali però farai bene a non imbrancarti e, anzi, a startene alla larga. Intanto ti voglio fare un sommario elenco di chi ti darà via via accoglienza e si merita tanta gratitudine; però, mi raccomando: non serbare rancore ai tuoi concittadini, perché a suo tempo ci penserà la Provvidenza a far giustizia. Già che ci sono, ti voglio anche confidare dei segreti che terrai per te, senza farne parola con nessuno: acqua in bocca».

Mettiamo pure che i necessari dettagli relativi, – qui volutamente saltati a piè pari per non farla troppo lunga -, una volta debitamente precisati, avessero arricchito il racconto del venerato avo tanto da renderlo addirittura avvincente; ma anche se avessero avuto un tenore ugualmente banale, come quello che intenzionalmente abbiamo usato noi per farne il riassunto, ci sarebbe da sentirsi cascare le braccia. Pare di sentirlo: e per dire queste cose, – davvero serie, ma sempre di quelle che posson capitare a chiunque -, si va a scomodare “la spietata e perfida noverca” e tutto il resto?

Non servono apologie né per giustificare la compagine adottata da Dante per raccontare la sofferta vicenda del suo esilio (non ne ha bisogno), né per giustificare le nostre prolungate chiacchiere e digressioni. Capiamoci: non perché le nostre considerazioni non ne abbiano assolutamente bisogno, con la tronfia pretesa di giustificarsi da sole, ma perché, – e pazienza, se non ci siamo riusciti -, uno scopo ben preciso l’avevamo: cioè che alla fine, – senza stare a lambiccarsi ogni volta il cervello o a stringersi, con un ‘boh!’, tra le spalle, davanti a fatti e personaggi meno noti o addirittura ignoti; sia anche per l’evidente contrasto di contenuti e di stile tra questa nostra prosa colloquiale e l’altezza della poesia dantesca -, potesse risaltare meglio in tutta la sua drammatica e solenne potenza, una voce austera, commossa e commovente:

Tu lascerai ogne cosa diletta 55
  più caramente; e questo è quello strale
  che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale 58
  lo pane altrui, e come è duro calle
  lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

Qui ci si ferma; si legge e si rilegge; ci si ricorda pure che “saetta previsa vien più lenta”, però quando arriva…. Così vien fatto di lasciarsi andare, di perdersi in quella specie di nebbia sottile che ovatta e avvolge ricordi che affiorano, indistinti timori, vaghi rimpianti; speranze accarezzate, accantonate, ma non perdute…. e si sta zitti(1).

Note
(1) Vedasi un po’ tutto il XVII del Paradiso, in particolare i vv. 1-6; 13-27; 46-96
I tre distici a piè del dipinto di DOMENICO DI MICHELINO:
QUI CŒLUM CECINIT MEDIUMQUE IMUMQUE TRIBUNAL
LUSTRAVITQUE ANIMO CUNCTA POETA SUO
DOCTUS ADEST DANTES SUA QUEM FLORENTIA SÆPE
SENSIT CONSILIIS AC PIETATE PATREM
NIL POTUIT TANTO MORS SÆVA NOCERE POETÆ
QUEM VIVUM VIRTUS CARMEN IMAGO FACIT

Chi cantò il cielo, l’intermedio e l’infernale tribunale,
  il poeta che tutto illustrò col suo animo:
ecco il dotto Dante, che la sua Firenze spesso
  sentì, per consigli e pietà, come padre.
Niente poté nuocere a tanto poeta la morte crudele:
  vivo lo rendono il valore, il canto, l’immagine.

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