La scuola e l’esame di ammissione

“Fatti non foste a viver come bruti(1)

            Una volta in Italia c’era la scuola, con i suoi limiti di strutture: edifici e suppellettile; di personale insegnante e ausiliario; di accessibilità e sostenibilità da parte del proletariato dell’industria e dell’agricoltura. Al netto di tutto questo rimaneva quantitativamente poco, però di parecchio valore: la cultura. A undici anni appena suonati o giù di lì, passato l’esame di quinta elementare, il ragazzino doveva decidere quale indirizzo scolastico successivo facesse per lui. Pesavano due considerazioni: se Aldemaro o la Zaira fossero o no tagliati per gli studi e quali fossero le possibilità economiche della loro famiglia, – quest’ultima a volte, anche allora, un po’ o addirittura parecchio sgangherata, ma non ancora fondata sul pallottoliere: genitore 1 e genitore 2 -; questa seconda valutazione, quella economica, quasi sempre, la spuntava sulla prima: così un potenziale Leonardo andava al tornio e il marchesino Eufemio all’Università, addottorandosi sull’impiego strategico del lardo. Bisogna ridirlo: avanzava davvero poco, ma continuava ad essere e chiamarsi ancora cultura. Poi è stata ammazzata anche quella.

            Una riforma evidentemente ci voleva per evitare la generica manovalanza dei futuri possibili Leonardi e il montare in cattedra dei professor Eufemio di turno, ad insegnare agli altri quello che non hanno mai imparato loro. La pietosa elemosina nei confronti degli alunni meritevoli e poveri, consistente nel parziale o totale esonero dal pagamento delle tasse scolastiche, fino alla fornitura gratuita dei libri di testo, era insufficiente e offensiva. Bisognava provvedere.

            Senza approfondite conoscenze di metafisica generale o di algebra astratta, poteva venire in mente di affrontare seriamente il problema dell’occupazione e della retribuzione, ma, senza negare questa evidenza (e intaccare la Carta costituzionale, che esordisce: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”), si mise piuttosto mano, con successivi interventi, a riformare le regole di accesso alla scuola e a provvedere di rimandare un po’ più in là la scelta definitiva dell’indirizzo da seguire.

            Le cose precedentemente stavano in questa maniera: dopo la quinta elementare c’erano tre possibilità (quattro, se si considera anche il caso non infrequente che uno smettesse di andare a scuola): un “avviamento al lavoro”, come si diceva popolarmente, intendendo per lavoro quello che sporca le mani e si fa con la tuta blu; le “commerciali”, che potevano costituire il punto e basta della scolarità, oppure sboccare in un eventuale successivo accesso ad un Istituto tecnico con conseguimento di relativo diploma, – avvenire riservato agli “impiegati”, i “colletti bianchi” -; le “medie”, sic et simpliciter, anche se si sarebbe dovuto correttamente intendere: scuola media inferiore.

            L’accesso alle “medie”, e solo a questo tipo scuola, era consentito in seguito al superamento dell’esame di ammissione: Zeno o l’Augusta, che avessero quell’intenzione, verso la metà della quinta elementare frequentavano un doposcuola preparatorio e a pagamento, – anche se con una spesa contenuta -, in vista appunto di sostenere l’esame di ammissione.

            Con tanto di Licenza elementare acquisita, ci si disponeva al nuovo esame, che preveda tre scritti e quattro orali. Per lo scritto: lo svolgimento di un tema; un dettato senza punteggiatura; un problema, che, – a parte le “riduzioni” (equivalenze) che non contavano -, prevedeva la soluzione con non più di tre operazioni aritmetiche. Per l’orale: alcuni brani di opere letterarie, con qualche poesia imparata a memoria; nozioni di geometria: rette parallele, triangoli…; vita e opere di dodici personaggi celebri: Mazzini, Verdi…; geografia fisica, politica ed economica di un Continente extraeuropeo.

            Posto che tutto fosse andato liscio, quale avvenire scolastico si prospettava dopo le medie al piccolo genio scampato a un vaglio tanto selettivo? Non se ne usciva: il ginnasio e liceo classico o il liceo scientifico, conseguendo il relativo diploma di maturità da mettere in cornice, nel senso che se Lorenzo o Loredana, una volta maturati, si fossero fermati lì, quel diploma non sarebbe servito a nulla. Dunque, l’Università: accesso a qualsiasi facoltà venendo dal classico, solo a facoltà scientifiche venendo dallo scientifico.

            Evidentemente le cose non potevano andare. Per quello che sta al ragazzo, che abbia un’idea chiara del proprio impiego futuro a undici anni, è chiedere parecchio e gli schemi troppo rigidi limitano o impediscono possibili ripensamenti, fino anche a precludere alcuni accessi. D’altronde, un iter scolastico che, dopo tredici anni complessivi, sbocchi necessariamente in una facoltà universitaria, a quei tempi di almeno quattro anni di durata, prevede da parte della famiglia un fiato abbastanza lungo. Ancora una volta: di tutto questo complesso cosa restava di accettabile? La cultura, almeno come possibilità, sempre al netto delle baronie e di quanto già sopra detto.

            Una certa elasticità per non creare compartimenti stagni; la giusta considerazione della psicologia in evoluzione di un ragazzo ancora impubere; soprattutto garantire in ogni caso un decoroso tenore di vita alle famiglie: questi alcuni degli elementi fondamentali per impostare una seria riforma. Se invece si intende per elasticità un generale livellamento al ribasso, in modo che in qualsiasi momento chiunque può passare tranquillamente da un indirizzo all’altro, salvo mettere in campo opinabili integrazioni e recuperi, la cultura non è più nemmeno una possibilità. Può così succedere, perché è capitato, che uno studente di lettere chieda di ripetergli a quattr’occhi e sottovoce l’alfabeto greco, un attimo prima di un esame di letteratura classica. Intanto il disagio economico cresce, mentre la cultura sparisce. Doveva continuare ad esserci una diversificazione di indirizzi scolastici, rivedendo la durata del periodo della formazione scolare nel senso di un suo prolungamento, per favorire eventuali cambiamenti di orientamenti. Tempi più lunghi di studio e l’accessibilità a tutti gli studi, non discriminatoria, ma selettiva su esclusivi criteri di merito, esigono una concezione veramente democratica della società civile, nella consapevolezza che la democrazia stessa poggia sulla cultura adeguata e diffusa; suppongono necessariamente la tutela del lavoro come il primo diritto di ogni uomo e come il fondamento dell’economia etica, per cui la retribuzione andrà valutata e corrisposta almeno al limite della dignità e del decoro, oltre che, ovviamente, in ragione dell’importanza e consistenza del prodotto. (continua)

NOTE
(1) DANTE ALIGHIERI, La divina Commedia, Inferno, XXVI, 119

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