ESILIO & ESILIATI. Esilio di Dante: Cacciaguida, l’uomo

GIOVANNI DI PAOLO(1), Dante e Cacciaguida, miniatura del XV secolo

«O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam coeli ianüa reclusa(2).

            Scriveva il Manzoni, a proposito della guerra per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga: “Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest’opera non possa esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi n’avesse bisogno(3)”. Già scomodare questa citazione sa di presunzione da parte di chi butta giù questi articoli di cultura varia e, forse anche, un po’ peregrina. Però, se lo scopo è di venire a parlare dell’esilio di Dante e farci qualche considerazione sopra, pareva bene dire due parole, o anche di più, per inquadrare alla meglio i personaggi dell’Inferno e del Purgatorio che hanno fatto cenno a quel fattaccio, chi più e chi meno direttamente. Così è nato il precedente articolo, pensando che gli eventuali lettori (di sicuro, assai meno di venticinque(4)), non debbano essere troppo esperti di storia in generale e di storia della letteratura in particolare.

            Nel Paradiso tocca a Cacciaguida il compito di chiarire e completare ciò che attiene all’esilio, ma siccome il Poeta gli dedica attenzione in ben tre canti (XV, XVI e XVII), potrebbe non esser male spendere un po’ di tempo a delinearne la figura, certamente preponderante da tutti i punti di vista su quelli che lo hanno preceduto nel poema, lui che si trova nel quinto cielo.

            Nacque a Firenze verso il 1091 da Adamo Elisei; sposatosi con una Aldighieri di Ferrara; ne ebbe alcuni figli, tra cui Aldighiero, capostipite della casata; il figlio di lui, e nipote di Cacciaguida, Bellincione, stabilì la sua residenza nel popolo di San Martino al Vescovo; da quest’ultimo nacque Alighiero, giudice che non disdegnò di arricchirsi con l’usura, diventando un piccolo proprietario terriero. Alighiero si sposò due volte, prima con Bella degli Abati, da cui ebbe Dante; poi con Lapa Cialuffi, da cui ebbe Francesco e Tatiana. Così il Poeta risale fino al suo trisavo.

            Investito cavaliere da Corrado III di Svevia, zio di Federico Barbarossa, Cacciaguida lo seguì nella seconda crociata (11471149), durante la quale trovò la morte, forse durante la ritirata dell’esercito cristiano (1148).

            Dante, dicevamo, incontra il suo lontano avo attraversando il cielo di Marte, il quinto appunto, che ospita le anime dei combattenti per la fede. Nel canto XV Cacciaguida racconta al suo discendente come era la Firenze dei tempi andati, quando era ancora compresa dentro la quarta cinta di mura, risalente all’epoca di Carlo Magno e rinforzata nei secoli successivi. La piccola Firenze di quei tempi viene descritta come una cittadina “sobria e pudica”, così diversa da quella dell’epoca attuale, cioè del tempo di Dante. Allora le donne non andavano a spasso con vestiti costosi e preziosi gioielli; la nascita di una figlia non metteva in ansia per la futura ricca dote da provvedere; le case erano modeste e l’aspetto esteriore di Firenze non era ancora fastoso; non erano diffusi comportamenti sessuali censurabili; i nobili vestivano sobriamente e non si vergognavano di esercitare professioni umili; infine, le famiglie non affrontavano odissee migratorie solo per esercitare il commercio.

            Nel canto successivo il trisavolo risponde ad alcune precise domande, che gli vengono poste, e veniamo a sapere che allora Firenze aveva un quinto degli abitanti rispetto all’inizio del XIV secolo, che non aveva ancora visto l’immigrazione di famiglie del contado, spesso portatrici di delinquenza, e che il confine della città era al Galluzzo e a Trespiano. Il canto termina col racconto del celebre scontro tra Amidei e Buondelmonti del 1215, che diede origine alle lotte tra guelfi e ghibellini.

            Infine, nel canto XVII, Cacciaguida predice a Dante gli eventi della sua vita futura, ossia l’esilio da Firenze e la sua vita raminga e solitaria. Inoltre gli rivela la sua missione, una volta tornato nel mondo: per bocca di Cacciaguida infatti Dio investe il fatidico pellegrino del compito di rivelare la sua volontà all’umanità per salvarla, e lo istituisce nella missione di poeta-profeta. (continua)

Note

(1) GIOVANNI DI PAOLO, pittore e miniatore senese (n. 1403 circa – m. 1482); miniò il Paradiso nel manoscritto, redatto tra il 1444 e il 1450, per Alfonso V, re di Napoli.
(2) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, Paradiso XV, 28-30.
La terzina citata, (tre endecasillabi ‘a minore’, con cesura femminile), senza alcun riferimento alla quantità, tiene però conto della sillabazione latina; il dativo “cui” viene considerato, come può essere, bisillabo. Eccone lo schema ritmico

                                    O sanguis méus, | o súperinfúsa
                                    gratia Déi, | sicut tíbi cúi
                                    bis unquam coéli | jánua reclúsa?

ed una possibile traduzione:

            «O sangue mio, o sovrabbondante
            grazia di Dio, a chi come a te
            fu mai due volte la porta del Ciel dischiusa?».

Per una sorta di completezza riportiamo anche la quantità sillabica, ricordando che l’interiezione ‘o’, l’avverbio ‘bis’ e la sillaba ‘-bi’, finale di ‘tibi’, sono ancipiti; tra parentesi è stato notato l’allungamento per posizione

                                   O sānguĭs (ī) mĕŭs, o sŭpĕrīnfūsă
                                      grātĭă Dĕī, sīcŭt (ū) tĭbi cŭī
                                     bis ūnquām coēlī jānŭă rēclūsă?

(3) A. MANZONI, I Promessi Sposi, Cap. XXVII, 1
(4)                                               o. c., Cap. I, 31

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