Esilio & Esiliati. 1. Esilio di Dante: le profezie nell’Inferno

“Com’asino sape, si va capra zoppa; così minuzza rape, se ’l lupo non la ’ntoppa”. (Farinata Degli Uberti)

In un precedente articolo abbiamo fatto un rapido cenno alle profezie relative all’esilio del Poeta, contenute nell’Inferno della Commedia, attingendo agli stessi elementi offerti da Dante, per mettere meglio in evidenza come la persona di Vanni Fucci sia trasfigurata dall’arte, diventando il cattivo assoluto e il bestemmiatore per antonomasia: il personaggio che detiene incontrastato il triste primato in questo truce campo. Torniamo ora sull’argomento esilio per dare alcuni chiarimenti, incorrendo in qualche inevitabile ripetizione, per poi passare alle profezie sullo stesso tema presenti nel Purgatorio e, infine, giungere alla conclusione nel Canto XVII del Paradiso.
Le profezie dell’esilio nell’Inferno sono in tutto quattro, affidate a personaggi molto diversi tra loro e riguardanti svariati aspetti della vicenda biografica di Dante; come anche quelle del Purgatorio, hanno in comune il carattere poco chiaro, anzi parecchio oscuro, che renderà necessaria la chiosa di Cacciaguida, appunto nel Canto XVII del Paradiso.
Nell’Inferno: la prima profezia è quella di Ciacco(1), – un goloso impenitente, noto anche al Boccaccio, ma che non si sa ben individuare -; risponde alle domande di Dante sul destino politico di Firenze e spiega che Bianchi e Neri si combatteranno, coi Bianchi che dapprima prevarranno, ma poi saranno cacciati dai Neri di lì a pochi anni, alludendo al colpo di mano operato da Carlo di Valois che rovescerà i Bianchi nel 1301, provocando indirettamente l’esilio di Dante.
La seconda, più diretta, è affidata a Farinata Degli Uberti(2): fu condottiero determinante nella vittoria dei ghibellini a Montaparti (4 settembre 1260) ed ebbe il merito di dissuadere pisani e senesi dalla distruzione di Firenze nella dieta di Empoli(3); si trova tra gli eretici epicurei, che “l’anima col corpo morta fanno”. Profetizza a Dante non l’esilio in sé, ma la sconfitta nella battaglia della Lastra, che nel 1304 impedirà definitivamente ai fuoriusciti fiorentini di rientrare in città (quindi Dante saprà quanto pesa l’arte di non poter tornare, come accadde ai Ghibellini del tempo del dannato).
La terza è messa in bocca a Brunetto Latini(4), l’ex-maestro di Dante, (al quale si è accennato e non solo di passaggio già un paio di volte), che fu notaio in patria e in Francia e priore a Firenze nel 1287. Autore, fra l’altro, del Tesoretto, poema mutilo o incompleto in settenari a rima baciata, scritto in volgare fiorentino. Nel terzo girone del settimo cerchio infernale, quello dei sodomiti, Brunetto tira Dante per la veste: gli parla in tono assai affettuoso, ma non meno oscuro, predicendo che le sue buone azioni gli procureranno l’invidia e l’ostilità dei fiorentini, Bianchi e Neri: ma lui, Dante, sarà lontano e non potrà subire la loro irosa vendetta.
Infine quella di Vanni Fucci(5), la più enigmatica di tutte, che allude alla presa di Pistoia (ultima roccaforte dei Bianchi) da parte del signore di Lunigiana Moroello Malaspina, paragonato a un fulmine avvolto da nere nubi che scatenerà una tempesta sul territorio pistoiese, tale da squarciare le nubi e colpire ogni Guelfo Bianco. Secondo Vanni, Moroello sarà come ingaggiato da Marte, il dio della guerra, che era stato il primo protettore della città di Firenze, poi sostituito e dunque arrabbiato. Ricordiamo, a tal proposito, che l’anonimo suicida(6) del finale del Canto XIII aveva detto che il dio pagano, proprio per questo motivo, avrebbe sempre rattristato i fiorentini con la sua arte, cioè la guerra.   (continua)

NOTE
(Sono riportati di seguito gli estremi dei brani relativi ai vari personaggi sopra richiamati e, per esteso, i versi propriamente riferentisi al tema dell’esilio)
(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, VI, 58-75
E quelli a me: «Dopo lunga tencione 64
  verranno al sangue, e la parte selvaggia
  caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia 67
  infra tre soli, e che l’altra sormonti
  con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti, 70
  tenendo l’altra sotto gravi pesi,
  come che di ciò pianga o che n’adonti.


(2) o. c., Inferno, X, 22-51.73-93
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte», 69
  rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata;
  ma i vostri non appreser ben quell’arte».
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta 73
  restato m’era, non mutò aspetto,
  né mosse collo, né piegò sua costa:
e sé continuando al primo detto, 76
  «S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
  ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa 79
  la faccia de la donna che qui regge,
  che tu saprai quanto quell’arte pesa.

(3) «E nel detto parlamento tutte le città vicine, e’ conti Guidi, e’ conti Alberti, e que’ da Santafiore, e gli Ubaldini, e tutti i baroni d’intorno proposono e furono in concordia per lo migliore di parte ghibellina, di disfare al tutto la città di Firenze, e di recarla a borgora, acciocché mai di suo stato non fosse rinomo, fama, né podere. Alla quale proposta si levò e contradisse il valente e savio cavaliere messer Farinata degli liberti e nella sua diceria propose gli antichi due grossi proverbi che dicono: com’asino sape, così minuzza rape; e vassi capra zoppa, se ’l lupo non la ’ntoppa: e questi due proverbi rimesti in uno, dicendo: com’asino sape, si va capra zoppa; così minuzza rape, se ’l lupo non la ’ntoppa; recando poi con savie parole esempio e comparazioni sopra il grosso proverbio, com’era follia di ciò parlare, e come gran pericolo e danno ne potea avvenire, e s’altri ch’egli non fosse, mentre ch’egli avesse vita in corpo, colla spada in mano la difenderebbe. Veggendo ciò il conte Giordano, e l’uomo, e dell’autoritade ch’era messer Farinata, e il suo gran seguito, e come parte ghibellina se ne potea partire, e avere discordia, sì si rimase, e intesono ad altro; sicché per uno buono uomo cittadino scampò la nostra città di Firenze da tanta furia, distruggimento, mina. Ma poi il detto popolo di Firenze ne fu ingrato, male conoscente contra il detto messer Farinata, e sua progenia e lignaggio, come innanzi faremo menzione.
(GIOVANNI VILLANI, Nova Cronica, vol. 6, cap. 81)
Il proverbio composto viene a dire: “Anche un asino sa (cioè, tutti sanno e, dunque, anche i ghibellini della dieta di Empoli) che una capra zoppa (i deboli, come lo sono pisani e senesi) seguita a masticare rape (sopravvive), finché non arriva il lupo (il forte, ossia lui, Farinata)”.

(4) o. c., Inferno, XV, 55-96
Ma quello ingrato popolo maligno 61
  che discese di Fiesole ab antico,
  e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico: 64
  (…)
La tua fortuna tanto onor ti serba, 70
  che l’una parte e l’altra avranno fame
  di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
(5) o. c., Inferno, XXIV, 121-151; XXV, 1-9
  Ma perché di tal vista tu non godi,
  se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi: 142
  Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
  poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra 145
  ch’è di torbidi nuvoli involuto;
  e con tempesta impetuosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto; 148
  ond’ei repente spezzerà la nebbia,
  sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ho perché doler ti debbia!». 151
(6) Non è certo chi possa essere il suicida del Canto XIII dell’Inferno. Riportiamo alcune opinioni.
Lotto degli Agli, figlio di Ugolotto di Aglio. Sembra si sia impiccato essendosi scoperto che aveva dato un consiglio falso in giudizio.
Rocco dei Mozzi, figlio di quel Cambio che formò la fortuna del banco dei Mozzi. Probabile movente del suicidio la sua dissipatezza, o la catastrofe bancaria, in Inghilterra (1290) e in Francia (1291), o, a parere di alcuni, per il fallimento intervenuto dopo il 1300.
Secondo Boccaccio ed altri sarebbe una persona indeterminata, evocata per rappresentare e bollare la mania suicida allora diffusa in Firenze.

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