Misericordia e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno(*).

            Nel Canto XXII, – prima dell’ingresso nella VI Cornice, quella dei golosi -, il poeta Stazio, già punito per la sua prodigalità e che accompagnerà Dante finché Beatrice non condurrà entrambi in Paradiso, spiega che avari e prodighi sono uniti nella stessa Cornice, in modo che la colpa che contraddice “per dritta opposizione alcun peccato,(1)” venga espiata insieme al suo opposto.

            I lussuriosi formano due schiere distinte nella VII Cornice, secondo che siano stati omosessuali o eterosessuali. In questa seconda schiera sta l’anima di Guido Guinizelli: “Nostro peccato fu ermafrodito;(2)”.

            Ghibellino, poeta e letterato bolognese, vissuto fra 1240 e 1276, il Guinizelli è stato l’iniziatore del Dolce Stil Novo; ha lasciato un canzoniere che comprende quindici sonetti e cinque canzoni, fra cui la famosa Al cor gentil rempaira sempre amore, considerata il manifesto della nuova scuola. Dante lo definisce “padre | mio e de li altri miei miglior che mai | rime d’amore usar dolci e leggiadre,” e spiega al penitente che i suoi scritti sopravvivranno finché durerà l’uso moderno.

            Nell’Eden si trovano i due fiumi, il Lete, “che toglie altrui memoria del peccato;(3)”, e l’Eunoè, che ravviva il ricordo del bene compiuto, nei quali bisogna successivamente immergersi per la definitiva purificazione, avanti di poter accedere al Paradiso Terrestre. Matelda, – idealizzazione di una reale figura femminile o personificazione fantastica che sia della bellezza umana prelapsaria -, guida e assiste Dante in questa ultima sosta in Purgatorio. Come una donna innamorata canta: “Beati quorum tecta sunt peccata!(4)”, estrapolando dall’inizio del Salmo 31, secondo la volgata latina.

            Finalmente Beatrice ammonisce il Poeta sulla importanza di confessare le colpe e dice: “l’accusa del peccato, in nostra corte(5)”, ossia nel tribunale celeste, giova ad ottenere il perdono e la misericordia da Dio.

            Nel Cielo II del Paradiso, quello di Mercurio, Giustiniano ripercorre le varie tappe della storia dell’aquila imperiale, presentandola in due momenti successivi.

            Partendo dal mitico Pallante, – venuto sulle rive del Tevere prima della distruzione di Troia, fino al combattimento tra Orazi e Curiazi, proseguendo quindi con il ratto delle Sabine, poi ricordando l’oltraggio a Lucrezia che causò la cacciata dei re e le prime vittorie contro i popoli vicini a Roma -, il racconto narra come i Romani portarono l’aquila contro i Galli di Brenno, contro Pirro, contro altri popoli italici: guerre che diedero gloria a Torquato, a Quinzio Cincinnato, ai Deci e ai Fabi. L’aquila sbaragliò i Cartaginesi che passarono le Alpi al seguito di Annibale, là dove nasce il fiume Po; sotto le insegne imperiali conobbero i loro primi trionfi Scipione e Pompeo.

            Successivamente, continua Giustiniano, nel periodo vicino alla nascita di Cristo, l’aquila venne presa in mano da Cesare, che realizzò straordinarie imprese in Gallia lungo i fiumi Varo, Reno, Isère, Loira, Senna, Rodano. Cesare passò poi il Rubicone e iniziò la guerra civile con Pompeo, portandosi prima in Spagna, poi a Durazzo, vincendo infine la battaglia di Farsàlo e costringendo Pompeo a riparare in Egitto. Dopo una breve deviazione nella Troade, sconfisse Tolomeo in Egitto e Iuba, re della Mauritania, per poi tornare in Occidente dove erano gli ultimi pompeiani.

            Il suo successore Augusto sconfisse Bruto e Cassio, poi fece guerra a Modena e Perugia, infine sconfisse Cleopatra che si uccise facendosi mordere da un serpente. Augusto portò l’aquila fino al Mar Rosso, garantendo a Roma la pace e facendo addirittura chiudere per sempre il tempio di Giano. Ma tutto ciò che l’aquila aveva fatto fino ad allora diventa poca cosa se si guarda al terzo imperatore (Tiberio), poiché la giustizia divina gli concesse di compiere la vendetta del peccato originale, con la crocifissione di Cristo. Successivamente con Tito punì la stessa vendetta, con la conquista di Gerusalemme: “poscia con Tito a far vendetta corse | de la vendetta del peccato antico(6)”.

            Infine, quando la Chiesa di Roma fu minacciata dai Longobardi, fu soccorsa da Carlo Magno.

            Sempre nel Cielo di Mercurio Beatrice spiega al Poeta il modo della redenzione. Quando la natura umana peccò nella persona di Adamo, perse la propria dignità, infatti “Solo il peccato è quel che la disfranca(7)”, e così fu cacciata dall’Eden. Non poteva riparare se non per una di queste vie: Dio poteva perdonarla per sua generosità, oppure l’uomo poteva espiare di sua iniziativa. Tuttavia l’uomo non era in grado, per sua natura, di riparare da solo, perché non poteva umiliarsi tanto quanto era insuperbito col peccato originale; allora fu Dio a dover riparare per lui, e poteva farlo operando un solo atto, cioè con il perdono o con la punizione, oppure in entrambi i modi: poiché l’opera di chi agisce è tanto più gradita quanto più mostra la propria bontà, Dio decise di redimere l’umanità seguendo ambedue le strade. Mai, in tutta la storia umana, si vide né si vedrà un atto così generoso, in quanto Dio non perdonò l’uomo con un semplice atto di liberalità, ma volle sacrificare se stesso e fu per questo che Cristo si fece uomo(8).

            Di Cacciaguida, che si mostra nel Cielo V, di Marte, già qualcosa si disse, e a più riprese, parlando dell’esilio di Dante e delle “profezie” riguardanti quell’evento. Torniamo adesso su un verso in particolare, che fa parte dell’introduzione al successivo discorso tenuto dal trisavolo: “l’Agnel di Dio che le peccata tolle,(9)”. La redenzione operata da Cristo, si viene a dire, ha comportato, tra l’altro, chiarezza e certezze, che il mondo pagano non aveva, per quanto, annaspando, qualche fioco barlume di futuro riuscisse a intravederlo. (continua)

Note
(*) Sal 84,11
(1) o. c., Purgatorio, XXII, 50
(2) o. c., Purgatorio, XXVI, 82
(3) o. c., Purgatorio, XXVIII, 128
(4) o. c., Purgatorio, XXIX, 3
Si tratta della versione fatta sulla LXX, che recita “μακάριοι … ὧν ἐπεκαλύφθησαν αἱ ἁμαρτίαι.” Il testo masoretico corrispondente (Sal 32) ha il singolare, parla in astratto e usa l’accusativo di relazione: «’ašerê … kesûy ḥăṭā’ā́h», che suonerebbe letteralmente in greco “μακαρία … τοῦ ἐπικαλυφθέντος τὴν ἁμαρτίαν” e in latino “beatitudo … tecti peccatum”, ossia “felicità … del coperto quanto al peccato”. La neovulgata traduce “Beatus, cui … obtectum est peccatum” e la CEI “Beato l’uomo a cui è … perdonato il peccato”. Come è noto, a partire da passi come questo prese avvio la teoria della grazia imputata ossia non inerente, ma solo aderente: questa visione luterana non sembra essere accettabile, in quanto suppone una sorta di finzione, facendo conto che sia una realtà quello che è solo un’apparenza.
(5) o. c., Purgatorio, XXXI, 41
(6) o. c., Paradiso, VI, 92-93
(7) o. c., Paradiso, VII, 79
(8) τὸν μὴ γνόντα ἁμαρτίαν ὑπὲρ ἡμῶν ἁμαρτίαν ἐποίησεν, ἵνα ἡμεῖς γενώμεθα δικαιοσύνη θεοῦ ἐν αὐτῷ.
Colui che non aveva conosciuto peccato (ḥaṭṭā́’th), Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. (2Cor 5,21)
(9) o. c., Paradiso, XVII, 33

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