JACOPO DEL SELLAIO, Trionfo del Tempo e dell’Eternità

«… morire! e poi?»(1)

Un problema senza soluzioni, la cui enunciazione abbia tuttavia un fondamento, si suole chiamarlo mistero filosofico: questo accade quando due proposizioni paiono essere in se stesse vere e chiare, presentando tra loro una irriducibile inconciliabilità a livello razionale.

            Sembra di comune esperienza la percezione del fluire del tempo, dove il presente è un attimo fuggente e sfuggente, labile confine tra il passato che ingloba – o, forse, inghiotte – irriformabile, e il futuro che avanza incerto. Chi butta giù queste righe, – quanto possano valere e con l’improbabile prospettiva che qualcuno le legga, – quello che si proponeva di dire lo ha in mente da tempo: questo è già passato, è verbum mentis depositato nella memoria; quando si fa verbum oris, oggettivato a voce o per iscritto, richiederà del tempo e alla fine del discorso, anche con tutta la maggior fedeltà e coerenza possibili, che non abbiano modificato in itinere il concetto e il progetto iniziale, sarà storia: magari recente, ma non attualità. Se il già detto trovasse in seguito una attualizzazione che lo richiama, la conseguente verifica della maggiore o minore conformità sarà ancora una volta storia, studio o analisi del passato, sia pure recentissimo. Si sapeva: è il πάντα ῥεῖ, il “tutto scorre” di Eraclito. Eppure nella sua mutevolezza inarrestabile, fosse anche solo a livello biologico, il soggetto consapevole del cambiamento, della consistenza puntiforme del presente che separa istantaneamente la semiretta del passato dalla semiretta del futuro, una sua qualche stabilità ce l’ha pure, tale da permettergli di concludere che l’aforisma “tutto scorre”, almeno quello “è” e non “scorre”.

            L’attimo presente separa il prima dal poi; tuttavia può darsi un prima e un poi anche nel passato e nel futuro, nel senso che si può prendere in considerazione un preciso punto di riferimento e vedere quello che lo precede e quello che ne consegue: ad esempio, il generante precede sempre il generato. La evidente differenza sta nel fatto che Filippo il Macedone ha generato Alessandro Magno, mentre un Filippo neonato non è detto che generi un Alessandro o un Bartolomeo: ma se lo farà, rientrerà nella regola del prima e del poi.

            Supponiamo che un evento sia previsto prima del suo accadimento e che poi si verifichi puntualmente: in tal caso si parlerà di preveggenza; se poi un po’ tutto il futuro fosse esattamente noto e non un libro chiuso, come si suol dire: allora si parlerà propriamente di prescienza. Conseguentemente chi conoscesse tutto in anticipo non andrebbe incontro a sorprese, mentre l’incertezza che regna nei comuni mortali, può suscitare apprensione e angoscia, ma può anche aprirsi alla progettualità e alla speranza. La prescienza annulla il tempo, perché ha già tutto davanti ai suoi occhi: insomma la prescienza finisce con l’identificarsi con l’eternità. Già qui ci imbattiamo in un caso di mistero filosofico fra i più rilevanti: infatti, la stessa parola composta “pre-scienza” dice riferimento al tempo, perché fuori del tempo non c’è né prima né poi, eppure la sua essenza si realizza nell’eternità(2), ossia fuori del tempo. Diciamo qui di passaggio che le coppie antinomiche e, più in generale, il dualismo, sia logico che ontologico, sono caratteristiche ineliminabili del pensiero occidentale e che le tentate sintesi ad un livello superiore non sono risolutive, ma confusive: sempre.

            A questo punto pare necessario fermarsi un attimo, perché potrebbe anche sembrare che il fin qui detto; quanto si è già detto in proposito qualche tempo fa, – sia pure avendo avuto più che altro di mira l’esilio di Dante e come il protagonista ne parla –; il molto altro che si sarebbe potuto dire;… tutto si riduca ad uno sterile esercizio, riservato a pochi cervelli disoccupati, che hanno avuto la sorte di trovarsi ad abitare in un corpo senza problemi di ricombinare insieme il desinare con la cena. Altrimenti uno si dedicherebbe a ben altro, come è un po’ sempre accaduto alla stragrande maggioranza degli uomini di tutti i tempi: ad Atene si può pensare a dedicare un altare Ἀγνώστῳ θεῷ, a un dio ignoto(3); a Corinto i più fanno gli scaricatori di porto, con tanto di sudore e di abbrutimento, fino ad essere diventati addirittura paradigma di scostumatezza: “corinzieggiare” (κορινθιάζεσθαι), se ci si passa il neologismo, valeva come uno squalificante proverbio.

            Noi proseguiamo comunque, indipendentemente dalle opinabili capacità astrattive personali e dal più o meno sobrio soddisfacimento garantito dei propri bisogni primari, perché, se si può lasciar perdere la questione generale sulla prescienza, il conoscere tutto in anticipo implica però anche sapere quale è il destino ultimo di ciascuno: la predestinazione, come esattamente la si chiama. Questo ha un certo rilievo, più o meno consapevole, per tutti indistintamente, se è vero che il nostro cuore è inquieto(4) e interroga e si interroga, anche nella fatica mal sopportata e nell’oppressione sofferta senza rassegnazione: detto magari non in modo forbito e neppure in punta di forchetta, il pensiero del momento subito dopo il nostro ultimo respiro, quando il cervello ha smesso definitivamente di lambiccarsi e la corruzione è già cominciata a partire dalla pancia,… quello è l’unico vero assillo.

Note
(1) ALESSANDRO MANZONI, I Promessi Sposi, XX, 8
(2) SEVERINO BOEZIO, De consolatione philosophiæ, VI, 6: “Interminabis vitæ tota simul et perfecta possessio”. [Possesso simultaneo e perfetto di una vita senza termine]
(3) Cfr. At 17,23
(4) Cfr. S. AGOSTINO, Confessioni, I, 1: “Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te”. [Ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te]

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