Sognare è anche un malinconico sospiro.

            “Qualche volta, Gertrude quasi s’indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità d’un pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia: «a questa fo del bene». Ed era vero; perché, oltre il ricovero, que’ discorsi, quelle carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose!(1)

            A Lucia, ma anche al Manzoni, credo, e a noi, che non abbiamo poi una gran familiarità con l’aspo, dietro a quell’aspo tornano alla mente, e a volte perfino si affollano, tante cose!
            L’aspo, per chi non l’avesse mai visto, può rammentare una specie di tamburo ruotante in orizzontale attorno al suo asse, che sporge agli estremi in modo di poter essere sorretto da opportuni appoggi sul terreno, alla giusta altezza di una persona a sedere, che lo farà girare con una manovella. In un contenitore, tipo una catinella, ci sono i bozzoli, di cui si deve ammatassare il filo che passa attraverso una sottile fessura, per impedire al bozzolo di venir dietro alla seta.
           Dalle nostre parti, a San Donnino, non moltissimo tempo fa c’erano le donne a far la treccia con la paglia di Firenze: veniva poi cucita in giro per i bordi, formando una spirale e si facevano borse da donna e cappelli per uomo e per donna, tradizionalmente in vendita sui barroccini, sotto la Loggia del Porcellino. Si facevano anche i guanti di lana con i ferri da calza corti, – uno di scorta infilato nella crocchia, – magari a crocchio per l’appunto, con le seggiole sull’uscio di casa, a veder chi passa e cucirgli, con la più ingenua spontaneità di questo mondo, il classico cappottino addosso. Queste attività avevano in comune tra di loro di non essere strettamente legate a orari fissi, come andare in fabbrica e dover marcare la cartolina; i gesti estremamente ripetitivi e fatti macchinalmente, senza neanche pensarci, tanto da poter fare anche più cose insieme; secondo i casi, si poteva anche lavorare da soli in cucina, in modo da dare un occhio alla pentola sul fuoco. In quei momenti il pensiero poteva andare dove voleva; succedeva anche che uno tornasse presente a se stesso proprio perché ridestato dal friggio dell’acqua che andava di fuori, o dal gatto che raspava alla porta di strada.

            Allora tra le tante cose che si tira dietro l’aspo, che viene ogni poco in mente a Lucia, c’è sicuramente proprio lui, si direbbe, l’oggetto materiale: come accade a chi non abbia fatto altro mestiere che quello, che appunto ripensa ai suoi strumenti di lavoro; ma siccome farlo girare voleva dire trovarsi a vivere ore, o anche solo attimi, di pensieri, affetti, fantasie, speranze e chissà cos’altro ancora,… (come si diceva prima), quell’aspo vuol dire a volte attenuarne il rumore per sentire il passo di Renzo; vuol dire lasciarlo qualche ora da parte per andare in Chiesa, da quel don Abbondio, incapace di far male a una mosca, se appena avesse un po’ meno di paura in corpo; smettere, magari una mezza giornata, per andare al convento dal padre Cristoforo, per un conforto spirituale, per un consiglio; vuol dire alzare un po’ la voce per rispondere a mamma Agnese, dopo aver domandato: «Come? C’è rumore, non ho capito.»; distrarre gli occhi, di quando in quando, finché è giorno, per guardare e, forse, non vedere “la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile(2)”, per andare oltre con lo sguardo, più in là o più in su; e vuol dire anche farlo stridere apposta, più forte, per impedirsi di sentire l’eco angosciosa di quel terribile “scommettiamo” e di quell’infame “vedremo, vedremo(3)”: parole tremende, che riassumono tutto uno stile di vita e tratteggiano il fosco ritratto del volto altezzoso e beffardo di uno squallido uomo, don Rodrigo.

            Dietro a quell’aspo ci si perde tutti, proprio perché ognuno può dire a se stesso e a suo modo cosa possa significare nel romanzo: noi abbiamo provato ad abbozzare, senza pretese, qualcosa di quello che evoca a noi e in noi; ma ognuno, quasi istintivamente, in certo modo, è portato a considerare e sostituire a quello il suo proprio aspo, volendo continuare a chiamarlo così: allora, veramente, quante,… quante cose…! Memorie trasognate o vivide, sogni audaci o piuttosto vagamente, languidamente accarezzati.
(continua)

NOTE
(1) ALESSANDRO MANZONI, I Promessi Sposi, Cap. XVIII
(2)                                                                    o. c., Cap. VIII
(3)                                                                    o. c., Cap. III

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