Il SOR ULISSE, ODISSEO E ULISSE

Il labile confine tra il piacere della scoperta e il rischio dell’avventura.

            Vogliamo cominciare a soffermarci adesso sull’Ulisse epico del Canto XXVI dell’Inferno, facendo conto che sia lui a parlare di sé e non Dante al suo posto, – il quale, questa volta, rinuncia ad interrogare direttamente in prima persona la “fiamma antica”, acconsentendo che sia Virgilio a farlo: “il perché vero rimane tuttora oscuro” (Scartazzini) -.
            Questo ingenuo espediente ci permette di saltare a piè pari tutta una serie infinita e dotta di citazioni letterarie e filosofiche sulla figura di Ulisse e far finta, appunto, che sia lui a rendere conto di sé a se stesso, come si diceva un po’ prima. Certo, a rigore e per rispondere precisamente alla domanda di Virgilio, che non chiede se non quale sia stato il luogo della morte, non ci aspettiamo come risposta la narrazione di una sorta di sintesi retrospettiva di tutta la vita trascorsa; però il filo conduttore nella risposta c’è ed è chiaro. “L’ardore | …. a divenir del mondo esperto, | e de’ li vizi umani e del valore” viene presentato da Ulisse come una sua personale caratteristica di tale forza dirompente, che diventa lecito pensare che anche tutta la lunga e travagliata vicenda precedente alla partenza da Circe sia stata sotto il segno di questa smisurata voglia di “canoscenza”, pronta ad infrangere perfino le regole e a violare i divieti: ci torneremo sopra.

            Siccome non gli verrà dato un gran risalto, diciamo subito che Diomede, per parte sua, è contraddistinto da un diverso “corno”, ma unito nella stessa fiamma che lo avvolge insieme a Ulisse, come i due furono uniti nell’inganno del cavallo di Troia; insieme architettarono l’inganno di una finta battaglia, cosicché Achille a Sciro, già travestito da fanciulla, si affrettò a prendere una spada per entrare nella mischia, rivelando in questo modo la sua vera identità, (per altro già nota a Deidamìa, con cui era sposato); insieme compirono il furto sacrilego, asportando dalla fortezza di Ilio (Troia) la statua del nume protettore, Pallade (la dea Atena dei greci e Minerva per i romani). Altre imprese, portate a compimento in coppia (come l’uccisione nel sonno di Reso e la concomitante strage per rubare i suoi due cavalli bianchi, straordinariamente veloci), o anche individualmente perpetrate, non sono accennate nel Canto dantesco; l’attenzione si allontana definitivamente da Diomede, che resta nello sfondo: una presenza muta, di cui non parla neppure l’inseparabile compagno di gemiti e di pianto.

            Di passaggio facciamo anche un’altra scelta, indipendente dalla precedente, e cioè, a costo che possa suonare come un bisticcio di parole, preferiamo non entrare nella spinosa questione se la poesia esplicativa e introduttiva ad altra ed alta poesia sia essa stessa vera poesia.
            La prolungata permanenza presso Circe di Ulisse e degli ultimi pochi compagni rimastigli è descritta nell’Odissea, dove la terribile dea, – “dea sæva”, dea crudele, la chiamerà Virgilio (2) -, compare per la prima volta nel Libro X. Non fu tanto Circe a trattenere (“sottrarre”) presso di sé Ulisse e gli altri per un anno e passa, quanto piuttosto furono un po’ tutti loro, chi più chi meno, a trovarcisi bene, dopo aver neutralizzato l’effetto dei malefici filtri della dea e scongiurate altre possibili successive somministrazioni. Furono poi proprio i compagni a sollecitare Ulisse perché troncasse la relazione e decidesse di intraprendere il viaggio per il ritorno in patria.
            Riprenderemo e concluderemo il discorso prossimamente.
(continua)

NOTE
(1) PRIAMO DELLA QUERCIA (Siena, 1400 circa – Siena, 1467) è stato un pittore e miniatore italiano del primo Rinascimento. Fratello del celebre scultore Jacopo della Quercia, poté essere originario di Quercegrossa, come lasciò intuire Vasari, o potrebbe derivare il suo nome familiare da un’antenata “guercia”, cioè strabica.
(2) PUBLII VERGILII MARONIS, Æneidos Libri XII, Liber VII,19

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