Come capita in una conversazione, a volte l’argomento di cui si discuteva scivola in rivolo secondario e, magari, succede anche che ci resti senza più venirne fuori. La voglia di parere sempre lucido e coerente porta qualcuno a dire che si tratta semplicemente di associazione di idee; altri, più sinceramente e senza tante storie, a un certo punto si fermano e si chiedono ad alta voce: dove eravamo rimasti? Noi, non sapendo che partito prendere – non in senso politico, dove più spesso partito sta solo per ottusa e prepotente fazione in lotta per il predominio -, tiriamo avanti come sia e andiamo a scomodare il poeta Orazio. Dal Carmen sæculare prendiamo la terza saffica, seguita da una traduzione raccattata strada facendo, non avendo trovato in prima persona il coraggio di sciupare quella strofa con un nostro tentativo di volgarizzazione.

“Alme Sol, curru nitido diem qui                              9
promis et celas aliusque et idem
nasceris, possis nihil urbe Roma
visere maius” (Q. Orazio F., Carmen sæculare).

(Sole fecondo, che col carro
porti e nascondi il giorno,
e nuovo e antico rinasci,
nulla più grande di Roma
possa mai tu vedere.)

            Qui c’è uno straordinario trionfo del Sole: è un dio su un carro di fuoco, padrone del giorno e della notte, immutabile e sempre nuovo; nella sua corsa dall’alto vede e può vedere tutto; forse vuole decisamente vedere tutto e il desiderio di scorgere il bello e il grande potrebbe proprio essere il motivo del suo incessante ritorno. Roma, stando alla lettera e alla sintassi, è qui introdotta soltanto come denominazione dell’urbe, senza epiteti; però è evidente, – tra le righe o, meglio, tra le parole, e con orgoglio smisurato di appartenenza e compiacenza commossa -, che è stimata e pensata grande, anzi: la materializzazione stessa della grandezza ideale. Si insinua così la suggestione che, tutto sommato, il Sole ci sia giusto per costatare ogni giorno che Roma è lì, al suo posto, e trovarla sempre oltre ogni possibile paragone o confronto: infine, più è importante e splendido l’osservante, più unico e nobile risulta l’oggetto osservato.

            Nella sua ascesa da Venere al quarto cielo, quello degli spiriti sapienti, Dante ha come un momento di assenza e solo quando giunge si accorge di essere “con lui”, con il Sole.

                        “Lo ministro maggior de la natura,                           28
                           che del valor del ciel lo mondo imprenta
                           e col suo lume il tempo ne misura,…” (Dante, Paradiso, X).

            La contemplazione, più ancora che l’attenzione, di chi declama e di chi legge è tutta concentrata sull’alto ufficio affidato al “ministro maggior de la natura”, compito che da questi è nobilmente e puntualmente svolto: come dire che ci troviamo davanti al maggiordomo di tutta la creazione; a un tramite essenziale tra cielo e terra, che solleva il mondo facendolo, in certo modo, oggetto partecipe della virtù divina; lo stesso fluire del tempo è regolato dalla sua luce: sintesi di grandezza, importanza e servizio, di essere e divenire – insieme fusi, ma non confusi -, in quel “lume” sapiente del Sole. (continua)

            P. S. – Quando buttavo giù queste righe, – ed anche diverse altre, per il timore di avere scritto qui sopra la didascalia continua e poi restare sprovvisto di materiale per un plausibile seguito -, Willy, un ragazzo che forse allora pochissimi conoscevano, era fra di noi. Ora, sia pure non di persona (purtroppo!), siamo anche troppi a conoscerlo e a volergli bene, sperando che nell’altro mondo vogliano dire qualcosa le poche cose buone che riusciamo a dire e a fare in questo nostro mondo, in mezzo a tanta violenza brutale e vergognosa indifferenza.

            Quello che ora scriverò mi pare di scriverlo a me stesso, non per un narcisistico gusto di rileggermi, ma perché i miei non mi chiamavano Guglielmo: riempie la bocca e ci vuole mezzora a dirlo, – anche se una profonda ragione affettiva per affibbiarmi un nome così impegnativo c’era: un mio zio paterno con questo nome, morto a ventitré anni -; mi chiamavano Willy. Bene; farò conto che ci sia qualcuno che mi legga e possa perfino avvantaggiarsene.

            Si sono prese le distanze da certi individui (individuo è un’espressione abbastanza neutra, applicabile alle persone, agli animali, ai vegetali e alle cose), dicendo: “Non sono il mio modello”. Non basta: si deve pensare, dire e insegnare che non sono un modello per nessuno e in nessun caso, bensì una mostruosità.

            Inoltre, se la pentola si scoperchia vomitando morte e si dice che era già da tempo che aveva cominciato ad andar di fuori, perché nessuno ha spento o almeno abbassato il gas?

            Ancora: è grave che ci siano delle risse; più grave che si ricorra ai forsennati castigamatti di turno per sostituire la brutalità cieca alla mediazione; più grave ancora che il pestaggio omicida possa talvolta accadere nei luoghi di garanzia. Tu mi capisci, nipotino mio. Non sto facendo improponibili equiparazioni e offensivi paragoni: sto provando a dire che la delinquenza violenta e assassina ha una radice amara che sciaguratamente si annida un po’ dovunque, con i tatuaggi e con la divisa. Chi è più portato a lasciarsi sopraffare da quella diabolica pulsione deve essere aiutato, educato, vigilato, curato se del caso: dalla famiglia e dalla scuola, prima di tutto e soprattutto.

            Infine, – ma solo per non farla troppo lunga -, bisogna dare alla gente una generale impostazione sociale vivibile e decorosa, e offrirla anche come il più immediato deterrente a non delinquere; ma, al solito, non basta. Certamente se ciò a cui ambisco è un mio onesto diritto e il soddisfacimento è realizzabile per vie spedite e giuste, non sarò facilmente tentato di cercare vie traverse, clientelari, criminose, mafiose…; ma resta un problema: io debbo ambire a vedere soddisfatti i miei onesti diritti e, magari, anche qualche sogno, ma non fantasticare di raggiungere la supremazia oppressiva, lo sfruttamento altrui prevaricatore della dignità umana. Non può costituire oggetto dei miei folli desideri ossessivi il lusso sfrenato, già immorale in se stesso, e peggio ancora quando inseguito, cercando il guadagno sporco e facile, che fa vigliaccamente leva sulla debolezza altrui: spacciando droga, minacciando ricatti, praticando l’usura, con l’estorsione e via dicendo.

            Volevo trovare una frase carina, per dire come il bianco degli occhi e dei denti, – nel loro vivo contrasto su una carnagione abbronzata come la tua -, e pure un’ampia fronte spaziosa – di cui la luce attenua il colore -, sono un ridente e sereno specchio del sole: poi è andata come è andata. Willy, il vecchio Willy ti accarezza con l’anima.

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