LA PACE NON AVRÀ FINE SUL TRONO DI DAVIDE

Piero del Pollaiolo, Speranza, 1470, Uffizi, Firenze

ἡ δὲ ἐλπὶς οὐ καταισχύνει(*)

            Poche parole tratte dal brano di Isaia, con cui abbiam terminato il precedente articolo, poste qui a titolo di questa presente puntata, per ricordare e per rifletterci sopra un po’.

            Una prima considerazione, che si può fare al riguardo, è relativa all’ampiezza del dominio indeterminatamente duraturo della pace futura: limitata al solo territorio soggetto al trono di Davide, – che, anche nel momento della sua massima estensione, ossia al tempo di Salomone, non rappresentava certamente una considerevole porzione del mondo allora conosciuto, – o augurabilmente assai più estesa e diffusa? Di fatto quel territorio, di cui parla il Salmo 72, veniva descritto come delimitato “da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra”, intendendosi, cioè, dal Mar Rosso al Mare Mediterraneo e dal deserto del Neghev all’Eufrate, esattamente corrispondente alla morfologia della Terra promessa da Dio ad Abramo e alla sua discendenza(1). Ebbene, il fatto però che il Salmo faccia astrazione dalle specifiche denominazioni geografiche, invita di per sé a spaziare oltre ogni confine comunque delineato, proiettando la prospettiva d’una plausibile concezione di tipo universalistico. D’altra parte lo stesso libro di Isaia, per quanto opera a più mani e composta in diverse epoche, nel suo genio ispiratore complessivo prevede, specialmente negli ultimi capitoli, una idealizzazione di Gerusalemme, quasi divenuta una capitale mondiale verso cui tenderanno tutti i popoli: “Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere(2).”; “Io (oracolo del Signore) verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria(3)”.

            Altra considerazione, fra le molte e facilmente intuibili. Se prendiamo la sentenza di Qohèleth, “Nihil sub sole novum(4)”, come decisamente l’Autore vuole che la si intenda, ossia che “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà”, ogni speranza resta preclusa e non hanno nessuna realistica possibilità di avverarsi eventuali vaticini aperti ad un futuro diverso e stabilmente migliore. Per questo antico Saggio tutto è avvolto da un fitto e profondo mistero; leggiamo infatti: “Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine.”; e poche righe dopo: “Chi sa se il soffio vitale dell’uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende in basso, nella terra(5)?”. Tuttavia, verso la conclusione dell’opera, con quella malinconica, eppure sublime, lirica sulla vecchiaia e sulla morte(6), scorgiamo quasi un parziale ripensamento sul destino ultimo dell’uomo, la cui corporeità in ogni caso non differisce nel suo esito da quella delle bestie, ed è quindi inevitabile che “ritorni la polvere alla terra, com’era prima”, mentre succederà che “il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato”. Qui ci si arresta, poiché non si può più argomentare su un ‘dopo’ susseguente alla morte, (dato che non se ne ha esperienza e, pertanto, è un ‘poi’ che non entra nella storia: la punteggia, ma la travalica). Si potrebbe così ammettere che non sia assolutamente e definitivamente esclusa una qualche tenue speranza in una possibile novità, per quanto nebulosa e rinviata in una dimensione metastorica.

            Volendo ora soffermarci un po’ sul tema appena accennato della speranza, possiamo partire del mito narrato da Esiodo, poeta certamente posteriore all’Iliade e all’Odissea. Nella sua opera Ἔργα καὶ Ἡμέραι, Opere e Giorni, di 828 esametri, l’Autore introduce, tra l’altro, il ben noto mito di Pandora. A questa bellissima e fascinosa donna viene affidato un vaso con l’ordine di non aprirlo mai. Al suo interno erano contenuti e custoditi tutti i mali che possono affliggere l’umanità: la curiosità (è femmina!) ebbe il sopravvento e i mali si sparsero e imperversarono per il mondo. Come sia stato, o l’intervento di Zeus (il Giove dei latini), o la tardiva prontezza di Pandora nel richiudere il vaso, trattennero l’unico contenuto rimasto: la speranza. I miti sono per l’appunto miti, e hanno generalmente il compito d’individuare fantasiose cause di certi effetti, altrimenti inspiegabili, che accompagnano ed anche determinano le esperienze della vita, fino a condizionarla profondamente. In questo mito si pongono piuttosto ulteriori problemi invece delle consuete e poeticamente estrose etiologie: Pandora è un nome composto che starebbe a dire la completezza dei doni esistenti e desiderabili, ma non pare proprio che si possa ripetere l’adagio “nomina sunt consequentia rerum”, perché nel suo vaso c’è la collezione di tutti i mali, che difficilmente possono essere qualificati come doni. Inoltre ci si domanda cosa ci stia a fare la speranza in compagnia di tutti quei guai possibili e immaginabili: ragionevolmente ci si potrebbe magari aspettare che si trattasse non della speranza, bensì, mettiamo, della vuota e ingannevole illusione, che non sarebbe neanche il più innocuo malanno. Con un po’ di buona volontà si può argomentare che δῶρον (dōron), da δίδωμι (dídōmi), è ciò che viene dato, un qualcosa checché sia, anche se l’accezione comune è proprio quella di un dono, di un regalo. Per quanto riguarda il termine ἐλπίς si tratta di speranza, stavolta effettivamente presa, di per sé, in senso neutro, vale a dire come un’aspettazione, un’attesa: anche qui però ha finito col prevalere il significato fausto, lieto, gioioso, come, ad esempio, nell’espressione paolina riportata in sottotitolo.

            Dal mito del vaso di Pandora, difficoltà strutturali messe da parte, sono comunque scaturite alcune classiche espressioni epigrammatiche, del tipo:

                        Valde in vita hominum pretiosa spes est,
                        sine spe homines misere vitam agunt.
                        (La speranza è preziosa nella vita degli uomini,
                        senza speranza gli uomini conducono una triste vita.), accanto all’altra assai simile:
                        Spes ultima dea est et omnium rerum pretiosissima,
                        quia sine Spe homines vivere nequeunt.
                        (La Speranza è l’ultima dèa(7) e la più preziosa di tutte le cose,
                        poiché senza Speranza gli uomini non possono vivere).

(5. continua)

Note

(*) ἡ δὲ ἐλπὶς οὐ καταισχύνει· ὅτι ἡ ἀγάπη τοῦ θεοῦ ἐκκέχυται ἐν ταῖς καρδίαις ἡμῶν διὰ πνεύματος ἁγίου τοῦ δοθέντος ἡμῖν. (Rm 5,5)
(Spes autem non confundit, quia caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis. – La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato).
(1) Sal 72,8; cf. 1Re 5,21
(2) Is 60,3
(3) Is 66,18
(4) Qo 1,10a “non c’è niente di nuovo sotto il sole”. Letteralmente l’ebraico recita “non tutto-nuovo”, da intendere “tutto non nuovo”.
(5) Qo 3,10-11.21
(6) Qo 12,1-8
(7) “Anche la Speme, | ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve | …”. (Ugo Foscolo, I sepolcri, 16-17)

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