Giorgio La Pira

“fossi (…) più tardi venuto alla luce”

            Nella sua opera Ἔργα καὶ Ἡμέραι, Opere e Giorni, Esiodo, oltre al mito di Pandora, (di cui qualcosa s’è detto precedentemente), si sofferma sulle vicende del mondo, individuandone cinque successive età. Al riguardo riportiamo qui di seguito alcuni estratti, che si possono tutti facilmente reperire in Wikipedia. Lo facciamo prendendola un poco larga (non è cosa nuova!), seguendo la costatazione che l’Autore in questo secondo mito sembra avere quasi completamente dimenticata la speranza, (problematica che fosse), di cui si era pure occupato nel citato mito iniziale, per prospettare un progressivo e inarrestabile deterioramento delle condizioni di vita, tanto da desiderare di non essere mai nato. Se ci sia all’orizzonte una futura sesta età del mondo, almeno un po’ più accettabile rispetto alla disgraziata quinta età in cui si trova a vivere il poeta, nulla si dice in proposito, nemmeno in modo sfumato; ma non ne consegue neppure una categorica esclusione, dal momento che l’Autore si sfoga lamentando: “fra la quinta stirpe non fossi mai nato, ma prima io fossi morto, oppure più tardi venuto alla luce!”. E si resta lì, su quel “fossi (…) più tardi venuto alla luce”….

                        Prima età: Età dell’oro. Gli uomini vivevano senza preoccupazioni e senza occupazioni una gioventù gagliarda e spensierata, senza vecchiaia e i suoi malanni, nutriti spontaneamente dalla terra: la morte li rapiva dolcemente nel sonno. Dopo la loro estinzione vennero trasformati in spiriti protettori degli uomini.

                                    “[…]Vissero sotto Crono, che era sovrano del cielo:
                                    vivean di Numi al pari, con l’animo senza cordoglio,
                                    senza fatica, senza dolor; né su loro incombeva
                                    la sconsolata vecchiaia; ma forti di piedi e di mani,
                                    scevri di tutti i mali, passavano il tempo in conviti,
                                    morian come irretiti dal sonno”.

                        Seconda età: Età dell’argento. Gli uomini vivevano per cent’anni presso le madri; stolti, anche una volta cresciuti non si astenevano dalle liti tra di loro e non veneravano gli dèi. Per questo vennero fatti estinguere da Zeus e divennero demoni inferiori.

                                    “[…] né forma avean essi, né mente:
                                    ma ben cento anni il bimbo, vicino alla tenera madre,
                                    pargoleggiando restava, balordo, stoltissimo, in casa.
                                    Cresciuti ch’eran poi, raggiunta l’età più fiorente,
                                    viveano breve tempo, crucciati di gravi dolori,
                                    per la stoltezza loro […]”.

            Con queste due prime età, a modo loro, sono belli e sistemati l’inferno e una specie di paradiso.

                        Terza età: Età del bronzo. In questa età vissero uomini possenti, ma prepotenti e violenti, la cui unica preoccupazione è la sopraffazione dell’altro, lo scontro e l’annientamento dei propri simili; si estinsero per la loro stessa scelleratezza.

                                    “L’opre di Marte
                                    care essi avean, di pianto feconde, e le ingiurie. Non pane
                                    era il lor cibo: il cuore feroce, nel sen, d’adamante:
                                    informi: aveano immane vigore: indomabili mani
                                    su le gagliarde membra sporgevan dagli omeri: l’armi
                                    avean tutte di bronzo, costrutte di bronzo le case:
                                    solo foggiavano il bronzo, ché il cerulo ferro non c’era.
                                    Ed anche questi, gli uni domati per mano degli altri,
                                    entro la squallida casa disceser del gelido Averno,
                                    senza ricordo lasciare: sebbene tremendi, li colse
                                    livida morte, e del sole lasciaron la fulgida luce”.

                        Quarta età: Età degli eroi. In quest’età vissero appunto gli eroi, uomini-dèi o semidei, stirpe giusta e coraggiosa pronti a perire per le loro cause. Alcuni di loro furono condotti da Zeus nelle Isole dei Beati, dove vissero in pace in terre fertili e ricche di greggi. Questa età è l’unica a non essere definita con il nome di un metallo.

                                    “E questi, anche, la Guerra maligna e la Rissa odïosa
                                    strussero, alcuni sotto le porte settemplici, nella
                                    terra di Cadmo, mentre pugnavan pei greggi d’Edipo;
                                    ed altri, entro le navi, sui gorghi infiniti del mare,
                                    quando li addussero a Troia,…”.

                        Quinta età: Età del ferro. La stirpe umana è quella che tuttora vive sulla terra: vale a dire al tempo del Poeta, – anche se, per certi versi, non si potrebbe escludere (preceduta o no da altre quattro, o da qualcos’altro, o anche da nulla) che sia per l’appunto quella che dura ai tempi nostri –, caratterizzata dalla sofferenza, dall’ingiustizia e dal fatto di dover lavorare per sopravvivere. Esiodo non intravede alcuna possibilità di salvezza per l’uomo di quel travagliato presente…. E noi?

                                    “Deh, fra la quinta stirpe non fossi mai nato, ma prima
                                    io fossi morto, oppure più tardi venuto alla luce!
                                    Poiché di ferro è questa progenie. Né tregua un sol giorno
                                    avrà mai dal travaglio, dal pianto, dall’esser distrutta
                                    e giorno e notte; e pene crudeli gli Dei ci daranno.
                                    Pur tuttavia, coi mali commisto sarà qualche bene;
                                    poi, questa progenie sarà sterminata da Giove,
                                    quando nascendo i pargoli avranno già grigie le tempie”.

(6. continua)

Note

(*) Cfr. Rm 4,18.

La frase fu ripresa da Giorgio la Pira, che la utilizzò ripetutamente per sottolineare il proprio atteggiamento di fronte a chi dubitava o voleva contrapporgli la crudezza delle circostanze reali. Adottò la frase come motto, simbolo dell’idea audace di chi sa “osare l’inosabile”. Così si esprimeva in una missiva, il 29 ottobre 1958, all’indomani dell’elezione al soglio pontificio di Giovanni XXIII, manifestando la speranza che stesse per aprirsi un futuro di pace e di fraternità ecumenica, mentre il clima politico mondiale era invece polarizzato dalla guerra fredda, da divisioni e contrapposizioni religiose, sotto la minaccia di un conflitto nucleare (anche allora!): «Andiamo molto in là col desiderio e con la speranza? Sì è vero; ma il motto di Firenze cristiana è stato in questi ultimi anni, tanto drammatici ed avventurati, il motto paolino: spes contra spem: che fu anche la “divisa avventurosa” del patriarca Abramo».                             (Giorgio La Pira, La preghiera forza motrice della storia, 2007, pag. 364).

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