Aeneas et Achates extra Templum Junonis, ca. 1615
Paris, Louvre (inv. no. 23130)

“e se non piangi, di che pianger suoli?”(1)
            Primo libro dell’Eneide, verso 462:
                        Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt.

            Di difficile traduzione tutto il verso, ma certamente la prima questione è costituita dal capire, a proposito di “rerum”, di quale tipo di genitivo si tratti: problema irrisolto, forse perché irresolubile. Noi lo lasceremo esattamente come l’abbiamo trovato, senza nessuna pretesa neppure di vagamente delucidarlo un po’; però c’è dentro a questo verso un fascino misterioso (sunt: sono, ci [qui] sono o esistono?), una malinconia (lacrimae), come un sospiro (sunt lacrimae…. rerum), poi un incalzare (mentem mortalia) ed anche un colpo (tangunt), che non permette che non se parli.

            Perfino la cesura ha un che di particolare: se si fa subito l’elisione (rerum et), pare che il destino ineluttabile ci caschi addosso; se si riprende fiato dopo il primo emistichio, quasi per una sorta di attonito smarrimento, d’un accavallarsi indistinto di immagini, d’un affiorare di sogni evanescenti, di ricordi rievocati – dai contorni sfuocati e però più vivi e pungenti nella sostanza –, allora passa un istante o chissà quanto tempo e la lettura finisce col mettere la congiunzione “et” in posizione musicale di levare veloce, come fosse proclitica a “mentem”.

            Il verso ha una forma solennemente epigrammatica (dattilo, spondeo, tonica), che lo rende indipendente dal contesto. Sempre per dire del primo emistichio, quelle tre parole, “sunt lacrimae rerum”, sono diventate, si può dire, proverbiali in certe situazioni di grande e inspiegabile sofferenza: un po’ come quelle altre parole, “sic vos non vobis”, (fatta salva la diversa potenza poetica, a tutto favore delle prime), che stanno a significare, queste ultime, a dir poco, un pesante impegno senza alcun vantaggio e, magari, con grave e perfino luttuoso danno.

            Tuttavia bisognerà anche calare il verso nel suo contesto, che, secondo le diverse sensibilità, potrà aiutare a penetrarne la profondità di significato.

            C’è un detto: “Gli amici dei miei amici sono miei amici”; Giunone era piuttosto del parere che i nemici dei suoi nemici fossero suoi amici: sempre fino a un certo punto però, perché il Fato si può farlo aspettare, ma poi arriva. La dèa era nemica giurata dei Troiani e, dunque, dei Romani, loro discendenti; siccome i Cartaginesi sarebbero stati a tempo debito nemici irriducibili dei Romani (da loro cordialmente contraccambiati: “Ceterum censeo Carthaginem esse delendam” era il ritornello di Catone in senato), la sorella-sposa di Giove stava dalla loro parte. In ogni caso, quale fosse per essere il futuro, per parte loro i Cartaginesi avevano costruito un tempio magnifico alla potente Virago tutelare.

            Dopo diverse vicende (non si può fare il riassunto dei circa 450 versi precedenti!), Enea e Acate, resi invisibili da Venere, entrano proprio in quel maestoso tempio e vedono una realistica rappresentazione delle tristi vicende di Troia: vi si riconoscono Priamo, Agamennone e Achille. Enea piange e si rivolge al muto compagno, costatando che la miseranda fine di Troia e poi del suo eroe, Ettore, e tutti i lutti e gli affanni di quella lunga guerra sono ormai noti al mondo intero: in questo contesto si colloca il celebre verso 462, seguito da un fervido invito alla speranza.

            Prima di andare ancora un po’ avanti con le nostre riflessioni o solo chiacchere che siano, vien fatto di domandarsi, (senza che via sia nel testo nessun cenno a tal proposito), se la raffigurazione che commuove i due visitatori in incognito, si trovi lì anche e forse proprio a celebrare un memorabile trionfo di Giunone, per quanto non definitivo.

            Annibal Caro, nei suoi endecasillabi sciolti, abbozzò la traduzione del solo secondo emistichio:
                        … ché ferità non regna
                        là ’ve umana miseria si compiagne.              744

            Qui “umana miseria” rende il virgiliano “mortalia”; il locale compianto, “là ove si compiange”, sostituisce il più universalistico “mentem tangunt”, accorpando, forse, nel compianto anche le “lacrime delle cose”. In tal modo sarebbe la evanescente raffigurazione, la “pictura inanis”, il soggetto oggettivante le lacrime…. Non c’è rimasto nulla!

            Guido Vitali, senza incespicare sulla “ferità”, che non ci incastra, rimescolò i due emistichi:
                        … L’umana doglia
                        anche qui tocca i cuori e sforza al pianto.                 693

            Al solito, “umana doglia” sta per “mortalia”; con la traduzione “anche qui tocca i cuori” si viene a restringere, confinandolo in un posto preciso, l’ampio corrispondente “mentem tangunt”; è poi sempre la “umana doglia” che provoca il pianto, e non la pittura. Il primo emistichio, completamente rimaneggiato, fa timidamente capolino a questo punto, con quel “sforza al pianto”: un po’ meno di arbitrarietà, però, decisamente,… Non c’è rimasto nulla.

            Si possono trovare facilmente altre traduzioni non condizionate dal ritmo poetico, tipo:
                        ci sono lagrime per le sventure e i travagli degli uomini toccano i cuori.

oppure
                        ci sono i pianti delle sorti e le cose mortali toccan l’anima.

            In entrambi i casi “le sventure” o “le sorti” che siano, interpretano “rerum” come un genitivo oggettivo. L’esordio “ci sono lagrime” della prima volgarizzazione sta a significare che “esistono lagrime” e lascia adito ad una visione allargata; invece il “ci sono i pianti” della seconda, per via dell’articolo davanti a “pianti”, dà a “ci” valore locativo, come il “qui” del Vitali o il “là ove” del Caro, e relega il verso esclusivamente all’interno del contesto. (continua)

Note
(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIII, 42

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