Tifone delle Filippine, novembre 2013
fra’ Guglielmo Maria

              Peregrinationes meas tu numerasti:
              pone lacrimas meas in utre tuo;
              nonne in supputatione tua? (Sal 56,9)
I passi del mio vagare tu li hai contati,
nel tuo otre raccogli le mie lacrime:
non sono forse scritte nel tuo libro?

            Continuiamo e concludiamo, per non moltiplicare troppo gli esempi, con una traduzione ancora e una, chiamiamola, trasposizione letteraria del virgiliano “lacrimae rerum”.

            Augusto Rostagni traduce:

                        la storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove la mente.

            Certamente qui è garantita la valenza assolutamente epigrammatica del verso, come è assai ben reso il senso del secondo emistichio. Qui le “cose” diventano “la storia”, quindi il genitivo originario è inteso come soggettivo: ad ogni modo, si tratta d’una traduzione solenne e, forse, anche un po’ toppo, perché sottrae questo primo emistichio al possibile uso proverbiale, (cui precedentemente si faceva cenno), dato che molti eventi avversi e luttuosi, pur nella loro dimensione tragica, restano tuttavia nella periferia del quotidiano, senza entrare nell’alveo della storia. Per il resto bisogna dire che “l’umano soffrire” diluisce alquanto la drammaticità di quel “mortalia”, che vede – quello sì – tutto senza eccezioni, (e non solo la sofferenza, e neppure quella umana in particolare), proprio tutto votato alla morte. Un fatale destino, presente alla mente come pensiero e come uno struggimento dell’anima, senza epiteti che ne aggravino il naturale peso, come invece può accadere in altri poeti(1).

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            Lacrymae rerum è il titolo d’una novella del Verga: “non vi sono personaggi principali, attori 

secondari e così via; c’è solo la descrizione di una casa, da un unico punto di vista, forse una finestra di fronte, e tante storie che vanno e vengono e sembrano raccontate dalla casa stessa. Ogni accadimento infatti si intuisce soltanto dalla descrizione degli oggetti della casa stessa: all’inizio c’è un uomo che sta male (e si capisce dal fatto che di notte c’è il lume acceso e ci sono spesso ombre chine verso di lui) e che dopo un po’ muore; poi la famiglia va via, la casa rimessa a nuovo e arrivano un uomo ed una donna che, dal far delle ombre, di certo si amano; loro vanno via lasciando posto ad una famiglia piena di debiti (la madre si nasconde quando bussano al campanello, il padre è sempre fuori per lavoro e dopo un po’ arriva l’ufficiale giudiziario a sequestrare i mobili); sfrattati questi ultimi, arrivano due amanti clandestini, ma una notte si capisce dalle grida provenienti dalla strada che sono stati scoperti. A questo punto la casa viene abbattuta per lasciare spazio ad una strada, e sotto i colpi dei muratori vengono fuori poco alla volta le tracce di tutti quelli che l’hanno abitata(2)”.

            Le lacrime. Le lacrime sono quelle che scendono spontaneamente dagli occhi dell’anonimo, defilato spettatore, –sempre fisso lì, a guardare, per giorni dalla solita finestra,… o che invece dà soltanto un’occhiata interessata quando di sfuggita ci passa,… che però si vuol di proposito soffermare dinanzi all’ultimo atto con un fare non più curioso, semmai in precedenza la sua fosse stata una disincantata curiosità, bensì ora per forza di cose commosso;… – o sono quelle che sgorgano come un sottile rigagnolo dalle ferite della lenta, inarrestabile, impietosa demolizione?

            «Giorno e notte, dal muro sventrato, si vedevano le stanze nude e abbandonate, colle pitture del soffitto che pendevano, le gole dei camini squarciate e nere. La carta gialla ricompariva sotto la tappezzeria lacera, il segno del letto e le macchie scure, i chiodi sul camino a cui era appeso il grande specchio dorato, il campanello ciondoloni sull’uscio della scala spalancato. Il vento vi faceva turbinare la polvere, la pioggia le inondava, il sole vi rideva ancora sulle pitture, gialle, verdi, azzurre; la luna e la luce dei lampioni vi entravano ogni notte, si posavano sulla macchia unta del letto, sui fiorami dorati del salottino misterioso, scendendo sempre, di mano in mano che il piccone dei muratori si mangiava le rovine(3)».

            Così, ci pare, neppure lo scarnificante verismo, con le cose che si mangiano le cose; con la strada che verrà, quando verrà, là dove prima c’era una casa; con quella finestra rimasta alla fine senza più nessuno dietro a guardare, nemmeno di sfuggita, perché, dopo un po’, non c’è più nulla da vedere: solo polvere e macerie, detriti e calcinacci; con le alterne vicende di altra gente, che vivrà altrove la sua breve stagione e, passando per quella via, nemmeno saprà che lì, un tempo, ci si poteva come attendare, per un po’,… occasionali pellegrini in ricerca, o fuggiaschi cacciati, o pallide larve già giunte al traguardo.

            Nemmeno il verismo, dopo tanti secoli, ha voluto o potuto tentare di tradurre univocamente l’intraducibile.

fra’ Guglielmo Maria

Note

(1) Ad esempio: Giacomo Leopardi, Canti (1831), XXIII Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

(2) Da www.studocu.com.

(3) Finale di Lacrymae rerum, in Giovanni Verga, Vagabondaggio, Firenze 1887.

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