L’effatà spirituale (Mc 7,31-37): XXIII domenica per annum B

Il brano evangelico di questa domenica (Mc 7,31-37) appartiene ad una sezione precisa della narrazione di Marco, racchiusa fra i racconti delle due moltiplicazioni dei pani, avvenuta una in Galilea, l’altra in terra pagana. Così la medesima tensione fra giudaismo e paganesimo si trova al centro della sezione: dall’aspra critica che Gesù pronuncia contro il legalismo dell’impurità rituale (Mc 7,1-23) si passa a due guarigioni operate da Gesù in favore di pagani: la liberazione della figlia di una donna sirofenicia (Mc 7,24-30) e la guarigione del sordomuto, che accade in terra pagana e la narrazione invita a considerarlo, probabilmente, come pagano lui stesso. Scrive un esegeta come «il fatto che Gesù si pronunci con autorità sulla questione del puro e dell’impuro deve indubbiamente determinare l’interpretazione di tutta la sezione, e specialmente la giusta articolazione fra il polo giudaico e il polo pagano di ogni realtà» (B. Standaert). Accogliamo questa lettura del nostro intimo, cercando di scoprirvi un senso profondo, che ci aiuti nella comprensione del nostro cammino spirituale.

All’inizio del brano di oggi, Marco descrive il peregrinare di Gesù attraverso la riva orientale del mare di Tiberiade. Il malato viene condotto da lui, come già accaduto per il paralitico a Cafarnao (Mc 2) e come avverrà per un cieco a Betsaida (Mc 8). Si tratta di un sordo, menomato nella parola, come spesso avviene in questi casi, quando una sordità completa ha ripercussioni nella capacità di parlare in modo corretto. La guarigione da parte di Gesù avviene in un modo che lo coinvolge pienamente attraverso una partecipazione corporale che rinvia alla guarigione del cieco nato in Gv 9. In ambedue i racconti è chiarissima una identificazione con la dimensione iniziatica del battesimo. In Gv 9 appare con il lavaggio nella piscina di Siloe, la piscina dell’Inviato; qui viene introdotto dalla separazione dalla folla, che Gesù opera prima di procedere con i gesti di guarigione. Di fronte al prodigio, l’acclamazione messa in bocca alla folla rinvia al «ritornello che percorre tutto il primo racconto della creazione» (B. Standaert; cf Gn 1,31; anche Sir 39,14-16).

La liturgia della Chiesa ha ripreso da questo brano di Marco una sequenza del rito battesimale, mantenendone addirittura il nome: rito dell’Effatà, la parola pronunciata da Gesù. Allora si aprirono le orecchie dell’uomo e riprese a parlare «correttamente». Nel rito del Battesimo il sacerdote tocca bocca e orecchie del credente, pronunciando queste parole: «Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre». Non si tratta semplicemente di un augurio, ma di qualcosa che accade in quel momento: si attivano i sensi spirituali dell’uomo, siamo resi capaci di ascoltare la Parola di Dio e di annunciarla. Inoltre, l’azione dello Spirito non investe solo le azioni legate direttamente alla professione di fede. La grazia battesimale trasforma la persona nell’integrità delle sue relazioni. Per quanto la conformazione a Cristo operata dallo Spirito sia rivolta prima di tutto alla relazione con Dio (cf 1Gv 3,1) e con il mistero della Chiesa (cf 1Cor 12,13), ogni altra relazione ne viene trasformata, almeno nelle sue potenzialità.

Una possibile interpretazione spirituale di questo brano illumina l’ampio raggio delle relazioni che costituiscono la nostra esistenza, nella quale scopriamo l’incrocio simbolico fra una parte pagana ed una giudaica. A volte, secondo il nostro «spirito pagano», siamo tentati di agire senza riferimento alla legge, cioè al riconoscimento di qualcosa che sta al di sopra dei nostri interessi particolari e immediati. Altre volte, secondo il nostro «spirito giudaico», siamo portati a confidando nell’opera della legge, nell’esecuzione formale della sua espressione esteriore. Il contatto con Gesù ci guarisce sia dall’autoreferenzialità sia dall’ipocrisia legalista per aprirci nell’ascolto ad accogliere il mistero, donandoci la capacità di parole che edifichino. Non possiamo parlare correttamente se prima non prestiamo un ascolto sincero: non possiamo parlare di Dio se prima non Gli prestiamo ascolto; non possiamo parlare all’uomo, se prima non gli prestiamo ascolto; non possiamo nemmeno agire verso il creato, nostra casa comune, se prima non prestiamo ascolto ai suoi gemiti inespressi. La capacità di prestare ascolto e pronunciare parole buone è prerogativa fondamentale della persona umana, le permette di vivere relazioni autentiche, fino a quella con il mistero di Dio. Trasformati dal santo battesimo, diventiamo realmente «uditori della Parola», capaci di lodare Colui «che ha fatto bene ogni cosa», che da sempre opera e continua a operare, perché eterna è la sua misericordia.

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