“Una salus victis, nullam sperare salutem”(1)

​Un signor ‘nessuno’, un ‘vinto’ è mastro-don Gesualdo(2).
​Intendo qui parlare non tanto dei vinti in seguito ad una guerra o anche solo ad una battaglia persa: ovviamente quelli sono certamente dei vinti; ma siccome, in tanti anni, c’è riuscito, con notevole successo, di inventare parecchi e svariati tipi di guerre e guerricciole e alle più diverse temperature: calde, fredde, ma anche tiepide; alle quali si accompagnano poi ricorrenti o medesimi conflitti sindacali, contrasti interni, concorrenze sleali;ecco che sono dei vinti anche tutti quelli che soccombono sotto un peso di questo genere, non armato, ma ugualmente reale e distruttivo; quelli che si curvano in seguito a un’insidia di fatto incombente oppure unicamente temuta, fosse pure, talvolta, frutto di pura suggestione proditoriamente inoculata. Come dire che veri motivi di sofferenza e apprensione non mancano, fermo restando che, al bisogno, ce li fabbrichiamo da noi, confortati dal generoso aiuto di tanti che ragionano o spropositano proprio come noi. Ad un campione simbolico e letterario di questi ultimi vinti dedichiamo un po’ d’attenzione.

​Al netto del colera che fa le sue vittime, Gesualdo con tutti i comprimari e le comparse, per abusare del linguaggio di scena, sono fondamentalmente dei vinti: perché così li ha sentiti e raccontati il Verga, ma anche e prima di tutto perché in quel mondo c’è posto quasi solo per la roba e, subordinatamente, per il sangue (inteso come nobiltà di casato), sempre in prospettiva dell’acquisizione e dell’accumulo della roba. Un briciolo di cuore, uno sprazzo di sentimento non mancano; un fremito, un intenerimento, una carezza rude, perché è e vuole essere rude chi la fa; bricioli insopprimibili di umanità, perché tutto ciò che va dal sospiro al sorriso è della natura umana, anche quando è diventata miope e sorda.

​Il baronello Rubiera, al dire, tutto sommato, anche un po’ compiaciuto da parte di sua madre, è uno che corre la cavallina e assomiglia tutto alla buonanima; faccia pure, ma quando si tratta di metter su famiglia il matrimonio si farà sulla base di una condizione: o accetti un matrimonio combinato o la roba non la pigli.

​Bianca Trao, nobile quanto basta e povera più del necessario, forse non ha rappresentato solo un’avventura amorosa per il baronello, il quale darà prova di sé correndo dietro a una sottana che lo riempirà di debiti. Bianca, in quella relazione, è rimasta incinta e bisognerà trovare una soluzione possibile per tappare le malelingue: una, purché non sia quella moralmente evidente, perché i Rubiera hanno la roba e Bianca ha solo sangue blu. Gesualdo ha la roba, ci sa fare a dispetto della sua famiglia di origine, che è un bel campionario di orgoglio, di parassitismo e di pretensione, e ha una gran voglia, quanto alla roba, di farne ancora di più. Un matrimonio tra lui e Bianca, fatto alla svelta, mette lei al riparo dalla vergogna, procura un padre alla creatura concepita, e al marito, ignaro di non essere il padre, regala un parentado titolato, che gli consente di aver voce in capitolo con la locale nobiltà terriera, aggiudicandosi un appalto delle terre del Comune, che parevano diventate un diritto di successione.

​Bianca è doppiamente schiacciata, due volte vinta: da una parte la convivenza con un uomo che le è stato imposto e che ha accettato per evitare lo scandalo e la fame, come donna e come madre; dall’altra parte il rinnegamento da parte del fratello don Diego, fanatico di tradizioni, lignaggio e presunti diritti (tutti dentro «le carte della lite» con la Corona di Spagna), che non può accettare a nessun patto l’umiliazione di nozze plebee.

​Senza inseguire altri personaggi, sempre vinti, mediocri, intrallazzatori o scrocconi, anche squallidi,… torniamo a mastro-don Gesualdo. Un bel momento, fugace ma veramente autentico, è il suo arrivo alla Canziria.
​«Allorché finalmente Gesualdo arrivò alla Canziria, erano circa due ore di notte.[…]
Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr’ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all’uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch’erano anch’esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr’ova fresche, e due pomidori ch’era andata a cogliere tastoni dietro la casa.[…]
​Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto: “Tu non mangi?… Cos’hai?”. Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato.
​“Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia!”. Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di cominciare, poi disse: “Benedicite a vossignoria!”.[…]

​“Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!…”. Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: “Te’, bevi! non aver suggezione!”. Diodata, ancora un po’ esitante, si pulì la bocca col dorso della mano, e s’attaccò al fiasco arrovesciando il capo all’indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella gola color d’ambra; il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise a ridere. “Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!…”.Sorrise anch’essa, pulendosi la bocca un’altra volta col dorso della mano, tutta rossa. “Tanta salute a vossignoria!”.

​Egli uscì fuori a prendere il fresco.[…]
“Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!… Hai le spalle grosse anche tu… povera Diodata!…”.[…]
​La luna, ora discesa sino all’aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l’ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi.[…]
​“Sei una buona ragazza!… buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre….”. “Il padrone mi ha dato il pane,” rispose essa semplicemente. “Sarei una birbona….”. “Lo so! lo so!… poveretta!… per questo t’ho voluto bene!”.[…]

​“Sai? Vogliono che prenda moglie.”.[…]
“Perché piangi, bestia?”.[…]
“… non è per me…. Pensavo a quei poveri innocenti….”».

​Abbiamo combinato una specie di selezione, ma chiediamo al lettore di andarsi a prendere il testo integrale, che non tollera riduzioni. Per il nostro scopo abbiamo fatto questa scelta, perché non ci pareva giusto fare riassunti.
​Diodata è del numero dei vinti; Gesualdo è ancora più vinto: non sa stare con la donna a cui ha voluto bene; non sa fare il padre ai suoi figli: a loro e alla loro mamma troverà una sistemazione, come se si potesse vivere tranquillamente senza veri affetti. Nanni l’Orbo, che si accollerà quel carico, è un altro vinto, che assume un ruolo, di per sé scomodo e discutibile, in cambio di una congrua dote.
​Gesualdo, un vinto, diventerà ‘nessuno’ al momento della morte, quando chiuderà gli occhi senza aver veduto quella che crede sua figlia; non gli si perdonerà, da parte della servitù, di avere dato la scalata alla nobiltà e gli si rimprovererà di essere spirato nella battista come un principe. Morte ancor più disperata, se appena avesse accarezzato qualche speranza. Ecco il Verga, stavolta senza tagli.

​«Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
“Mia figlia!” borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. “Chiamatemi mia figlia!”. “Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla.”, rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
​Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce.

​“Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?”. Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto. “Ohi! ohi! Che facciamo adesso?”, balbettò grattandosi il capo.
​Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando.

​Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra. “Mattinata, eh, don Leopoldo?”. “E nottata pure!”, rispose il cameriere sbadigliando. “M’è toccato a me questo regalo!”. L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
​“Ah… così… alla chetichella?…”, osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne.
​Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
“Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…”. “Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… Ha cessato di penare”. “Ed io pure.”, soggiunse don Leopoldo.

​Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano: uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. “Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla”.
“Si vede com’era nato…”, osservò gravemente il cocchiere maggiore. “Guardate che mani!”. “Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vedete cos’è nascer fortunati…. Intanto vi muore nella battista come un principe!…”.
“Allora”, disse il portinaio, “devo andare a chiudere il portone?”».

NOTE
(1) PUBLII VERGILII MARONIS, Æneidos Libri XII, Liber II,354
“Una sola salvezza resta ai vinti, non sperare nella salvezza”
(2) GIOVANNI VERGA, Mastro-don Gesualdo, 1888.

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