«In rerum natura,» diceva, «non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera…». (1)

            Nei precedenti articoli sono stati presi in considerazione diversi personaggi, desunti da opere varie: letterarie, religiose, pittoriche, melodrammatiche; l’intento, seppure ci siamo riusciti, era quello di fare qualche nostra osservazione di carattere essenzialmente estetico, senza rinunciare a nessuna nostra convinzione personale, che, assolutamente senza volersi in nessun modo imporre, tuttavia non potrà essere sfuggita al lettore attento. Ci siamo soffermati anche su alcune persone realmente esistite, – come si suol dire, in carne ed ossa e, dunque, non mitiche o frutto di fantasia -: in ogni caso, non per una improbabile conoscenza diretta, ma per i riferimenti fatti ad esse dai rispettivi autori, e presi sempre dalla relativa rappresentazione artistica.

            Riprendiamo ora il discorso partendo proprio da questa osservazione, che non sarà nuova e neppure stupefacente, ma che ha una sua non trascurabile importanza: quando le persone storicamente esistite entrano in un’opera d’arte diventano esse stesse, sempre e necessariamente, personaggi, con una loro fisionomia, lirica o tragica, chiara e diversa da come potrebbe tratteggiarla la storiografia o classificarla una scheda biografica o riassumerla, quando fosse stata redatta un’apposita cartella, una anamnestica clinica.

            Ammesso sempre e solo che si tratti di vera arte, la differenza sta nel fatto che la persona può bene essere interpretata, ma non inventata: ce ne occuperemo diffusamente dopo. Il personaggio di fantasia è concepito di sana pianta e nasce per incarnare una suggestione, un sentimento, un’intuizione, un sogno, un modello: pensiamo, per fare subito un esempio di questo secondo caso, al don Ferrante de I Promessi Sposi.

            Tutto quello che di fatuo, di generico, di ampolloso, ottuso e intellettualmente tronfio si voglia dire e ironicamente condannare di quell’età sudicia e sfarzosa(2), se non vuol ridursi ad un trattatello morale arido e poco accattivante, esige un parto maschio: ed ecco, nasce appunto don Ferrante(3): “più che un dilettante” in astrologia; istruito nei segreti della magia e della stregoneria, “per potersene guardare, e difendere”; “peripatetico consumato” e, conseguentemente, negatore convinto del contagio pestilenziale che, a suo dire, “non esiste,… è una chimera”, perché non è né sostanza né accidente(4); professore nella scienza cavalleresca; intimorito quanto basta e un po’ di più per “quella fatale congiunzione di Saturno con Giove” e per la maligna influenza che ne deriva. Un personaggio, si direbbe, inventato apposta per mettergli in bocca la più strampalata sentenza che si possa immaginare, frutto delle “grand’ore” passate “nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta”. Partiamo dai libri e poi il resto.

            “Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia (la politica); due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto”. Non si poteva fare di meglio e di più.

            Benissimo che nella mente di don Ferrante il Machiavelli sia il segretario fiorentino per antonomasia: il Ferroni aveva ancora tempo a nascere per dettare l’epitaffio tanto nomini nullum par elogium, che sarebbe stato apposto sul monumento funebre, opera dello Spinazzi, in Santa Croce a Firenze, a distanza di duecentosessant’anni dalla morte del ‘segretario’, avvenuta nel 1527; anche senza epitaffio il Machiavelli era decisamente e meritamente celebre.

            Ed ecco la bonaria e sottile malizia del Manzoni, che fa accostare nel cervellino del nostro studioso a “tanto nomini” il non proprio notissimo Giovanni Botero, ossequiente espressione della controriforma e, comunque, in aperto contrasto con le tesi del Machiavelli, almeno come venivano intese a quei tempi. Sintesi meravigliosa di opposti inconciliabili e equiparazione livellatrice tra geniale e mediocre. Però su “mariolo sì, ma profondo” e “galantuomo sì, ma acuto” è il Manzoni che lo vuole: bisogna tornarci sopra e starci un poco. (continua)

Note
(1) Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XXXVII, § 50
(2) o. c., Cap. XXII, § 17
(3) o. c., cfr. Capp. XXVII; XXXIV; XXVI; XXXVII
(4) Riportiamo qui di seguito alcune notizie di cui don Ferrante non era in possesso, dubitando però che, anche nel caso in cui ne fosse stato a conoscenza, sarebbe ugualmente rimasto un “peripatetico consumato”. Semmai, concedendogli proprio tutto a occhi chiusi, la maligna influenza derivante da “quella fatale congiunzione di Saturno con Giove” in quale delle dieci categorie l’avrebbe messa?
            Antoni van Leeuwenhoek (1632 – 1723) fu un ottico e naturalista olandese: viene ricordato perché fu il primo a osservare i batteri usando un microscopio, e per questo lo si considera il primo “microbiologo”. Sfruttò per le sue ricerche i grandi progressi compiuti nel Seicento nella costruzione delle lenti, allo stesso modo di Galileo Galilei (1564 – 1642), che le aveva usate per osservare i corpi celesti, cioè oggetti molto grandi e lontani; lo scienziato olandese le usò per vedere organismi piccolissimi e vicini.
            I batteri sono microrganismi unicellulari che si distinguono in base alla loro forma. Sono chiamati: bacilli, a forma di bastoncino; cocchi, se sono sferici; diplococchi (2 cocchi); stafilococchi (cocchi disposti a grappolo); streptococchi (cocchi disposti a catenelle); streptobacilli (bacilli disposti a catenelle).
            La peste è una malattia infettiva contagiosa dovuta al batterio Yersinia pestis, trasmesso all’uomo dalle pulci dei ratti; può presentarsi sotto due forme, quella bubbonica, caratterizzata da febbre molto alta, cefalea, artralgia, delirio e tumefazione delle linfoghiandole (bubboni), e quella polmonare, caratterizzata da una gravissima broncopolmonite. La peste è trasmessa anche da uomo a uomo per via respiratoria. La diagnosi si basa sull’isolamento del batterio dal bubbone, dal sangue, dall’espettorato o dal siero.

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