Credenno ca parlava c’ ‘o Signore,
‘nzerraje pe’ sempe ll’uocchie De Pretore(1).

            Un ‘nulla’ più nascosto e insidioso è frutto dell’indifferenza e dell’abitudine congiunte insieme: perché l’indifferenza è sempre all’origine della ‘nullificazione’ dell’altro, ma può, magari tardivamente, provocare l’esecrazione da parte di alcuni; unita all’abitudine, l’indifferenza fa parere tutto normale e non dà adito a ripensamenti o, tanto meno, a pentimenti. A meno che…. A meno che quell’insopprimibile sussulto di coscienza di qualcuno non riesca a scuotere il torpore di troppi, ridestando almeno per un attimo un barlume di umanità.

            Tre ragazzi, tre “mariuncelli”, sono stati beccati: vengono processati e condannati, uno dopo l’altro, con le pause e gli intervalli abituali: per scribacchiare qualcosa il cancelliere, per quattro chiacchiere gli agenti di custodia; e, magari, questi e quello per prendersi intanto “nu surzo ’e cafè”. Il primo condannato, incatenato alle mani, chiede d’esser portato via subito, senza stare ad aspettare la conclusione, – naturalmente, scontata -, degli altri due procedimenti: ma nessuno gli dà retta (“Si fa dopo un viaggio solo con tutti e tre i detenuti.”). Allora lui comincia a sbattere le catene contro la testa fino a farsi sortire sangue, ma non serve a nulla: è solo un mariuolo fra tanti, come tanti, che quasi sicuramente seguiterà a fare il mariuolo, tornerà in carcere, come altri e con altri, incatenati, in successione, come una stracca, monotona, inarrestabile litania. Loro hanno un nome solamente per la giustizia, nel senso che, ogni volta, a ogni recidiva, qualcuno borbotta: “È rimusica. Ci risiamo!”. Al primo dei tre mariuoli un nome d’arte l’ha dato Eduardo e ci ha scritto una poesia: Vincenzo De Pretore; si badi, solo il nome, perché «De Pretore fuie mammà»; dopo nove anni quella poesia diventò una commedia (o una tragedia?): De Pretore Vincenzo.

            Il teatro, si sa, va visto in teatro; e poi l’opera di Eduardo ha una sua meritata notorietà, che dispensa da ogni tentativo di raccontarla. La suggestione che suscita, sempre diversa da persona a persona e sempre intensa, quella può forse valere la pena di accennarla. Un paradiso casalingo, dove i volti dei santi sono quelli familiari delle poche persone, se non amiche, almeno non nemiche, da tempo conosciute; dove la Madonna ha le fattezze della popolana a servizio del signore di Melizzano, la tata che a Vincenzo gli ha un po’ fatto da mamma, perché forse ne era veramente la mamma;… Irriverenza? O, piuttosto, sognare l’inimmaginabile con i colori dei sentimenti più struggenti e inespressi, quando poteva essere il momento di manifestarli, e poi non c’è più stato tempo? Un tribunale con un Giudice che valuta più le circostanze dei fatti accaduti, con un suo codice di procedura penale capace di neutralizzare le disposizioni penali,… che sa assolvere: «Questo napoletano resta qua (in paradiso)». Un delirio agonico ha dato personalità a quel ‘nulla’ umano di un mariuncello, anche un po’ pieno di sé, anche un po’ ingenuo, anche un po’ galante e perfino buono: «Mi spiego? È giusto?».

            Nisciuno, e solo Nisciuno è Ninuccia, la fidanzatina innamorata pazza di Vincenzo, che lo sa aspettare quando esce dal carcere, perché ha strappato un orecchino e non è stato neppure capace di trafugarlo a modo e così s’è fatto scoprire con la refurtiva. Forse, anche in questo caso, così poco epico e tanto popolano, ci sia stata da parte dell’Autore una ricerca di una certa assonanza tra un nome proprio, (già così linguisticamente martoriato(3)), e un pronome indefinito? (Se fosse, assonanza certamente non suggerita per astuzia, ma frutto d’un dramma improvviso e sconsolato). In ogni caso il ‘nulla’ di Ninuccia è nella sua incapacità perfino di piangere, mentre si avvicina al defunto come per parlare a persona viva: «Ti ricuorde quanno vulive sapè ’a me che facevo se tu morivi? Io te dicette: “Chello che facciarria ’o sacc’io”. E invece non lo so. Tu mo ’o ssai, e non m’ ’o puo’ di’. Nun ’o saccio c’aggia fa’…».

NOTE
(1) EDUARDO DE FILIPPO, Vincenzo De Pretore, poesia, 1948
(2) PUBLII VERGILII MARONIS, Æneidos Libri XII, Liber III,658
            “mostro orrendo, deforme, enorme, a cui tolta la vista (accecato),
            oppure con l’occhiaia vuota”.
(3) Da Anna; diminutivo: Annina; aferesi: Nina; vezzeggiativo: Ninuccia. Al vocativo può subire troncamento: Ninu’.

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