Son lo spirito che nega
                                                           sempre, tutto;…
                                                           Voglio il nulla e del creato
                                                           la ruina universal,…(1)

            Può succedere che si abbia in testa un’idea precisa, una tesi chiara da presentare, e allora, a scriverci sopra, il titolo è bell’e fatto: unica seria preoccupazione è vedere, tra una divagazione e l’altra, di non andar troppo fuori tema. Capita anche che l’idea ci sia, ma i contorni sono sfumati, indefiniti, perché dietro c’è un fatto, un’emozione o addirittura uno stato d’animo, che, a raccontarli per filo e per segno, restano quello che sono: la narrazione cronachistica di un episodio o l’esternazione di una convinzione personale che si è venuta man mano formando; dunque, non una tesi. A volte, poi, un titolo balza fuori prepotente da una specie di nebbia lenta a diradarsi, che forse sparirà andando avanti,… e, finalmente, sarà quel che sarà.
            Lo stratagemma usato da Odisseo (Ulisse), rispondendo a Polifemo che il suo nome proprio è Nessuno, serve egregiamente perché gli altri Ciclopi non si schierino dalla parte del “monstrum horrendum, inforne, ingens, cui lumen ademptum(2)” e gli diano mano a vendicarsi: anzi, finirà che al danno subìto dal famelico malcapitato si aggiungerà anche la corale derisione per il suo strepitare, che vien preso per quello di uno smanioso ubriacone.

            Non si può tuttavia evitare che quell’omerico ‘nessuno’ quasi obblighi a ritornarci sopra, a rifletterci, a fare dei confronti. Intanto vien fatto di pensare allo scarso acume del mitico Ciclope, che casca nel solenne tranello della trasformazione di un aggettivo indefinito, o pronome che sia, in un nome proprio; poi potrebbe anche affiorare una domanda inquieta: ma la tragica e insensata bestialità, che costituisce la mostruosità essenziale di quell’essere, ancor più e prima della sua stessa deformità fisica, non è espressione del suo ‘nulla’ esistenziale che lo rende naturale contenitore del vuoto, di tutte le negazioni possibili, di ogni assenza di cose e di persone?

            Tuttavia il ‘nulla’ creato dalla fantasia esalta, per contrasto, la capacità umana di costruire qualcosa, che non sarà magari sempre vero e bello, però intanto è qualcosa. Se invece il ‘nulla’ diventa il traguardo ultimo verso cui si tende ineluttabilmente o, peggio ancora, è considerato come lo sbocco finale che si vuole imporre e accelerare quale termine soppressivo dell’esistenza altrui, allora si passa dalla tragedia all’orrore.
            La vita che non ha un senso; che si interroga e non sa rispondersi; che è convinta che nessuno e mai saprà il perché;… che è un male così male che non se ne esce, neppure attentando a se stessi…: in questi o simili modi si può provare a descrivere la tragedia esistenziale, – schiacciante per un verso, ma anche quasi voluttuosamente accarezzata -, una volta che ci si sia precluso l’accesso ad una, pur che sia, dimensione di fede. In questa filosofia di agnosticismo e di vuoto ognuno è ‘nessuno’.

            Può accadere, è accaduto, che il ‘nulla’ sia pensato non come l’insieme vuoto, ma concretamente costituito da alcune presenze pregiudizialmente rifiutate: classi sociali, categorie economiche, etnie,… di cui non si ammette e non si tollera l’esistenza; che perciò devono essere eliminate: magari anche perché percepite e surrettiziamente fatte sentire come una minacciosa insidia nei confronti di quegli autoproclamati titani, che si arrogano il diritto esclusivo di esistere; ma ancor più ed essenzialmente perché quegli altri, quelli classificati come usurpatori, come perniciosi parassiti, devono sprofondare appunto in quel ‘nulla’ da cui improvvidamente sono emersi. Questo è l’orrore del ‘nulla’ concepito e attuato dalle purghe di regime, dalle pulizie etniche, dalla soluzione finale. In questo inferno del ‘nulla’ sistematicamente pianificato ogni condannato è ‘nessuno’: ovviamente, nella considerazione dei superuomini e della razza dominante di turno, si tratta di eliminare non solo una collettività, ma anche di svuotare ciascun membro a livello individuale, venendo così la vittima scientificamente ridotta a sentirsi e valutarsi un automatismo, un numero, mediante una continuata allucinante azione demolitrice di ogni pur minima traccia di personalità.
(continua)

NOTE
(1) ARRIGO BOITO, Mefistofele, 1867, Atto I

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