“E detto l’ho perché doler ti debbia!”.

            Quando è la persona con tanto di nome e cognome a diventare personaggio, allora ci sono una quantità di elementi indisponibili a chiunque, storico, letterato o cos’altro sia: quando, infatti, risultino tutti noti, sono dati di fatto l’origine, l’ambiente, le relazioni, le azioni ed altro ancora. Ma la realtà storica non abbraccia tutto: anzi, lascia all’arte libertà e spazio per intromettersi a rovistare nell’intimo più segreto, a scavare nel vasto dominio del non oggettivabile, esaltando veri o presunti stati d’animo; enfatizzando o anche solo supponendo particolari vizi e virtù, passioni e inibizioni,… senza escludere neppure un eventuale processo inquisitorio alle intenzioni: insomma, un ampio adito, come si diceva un po’ prima, all’interpretazione. Facciamo allora un esempio illustrativo a questo proposito e prendiamo Vanni Fucci.

            “Bestia” pare fosse il soprannome(1) di questo pistoiese del XIII secolo, che Dante potrebbe avere conosciuto quando, nel 1289, questo già famigerato individuo partecipò con i fiorentini alla guerra contro Pisa, rendendosi tristemente ancor più noto per le sue gratuite atrocità. Compì, fra l’altro, una bravata carnevalesca nel 1293, entrando in Duomo e compiendo un furto sacrilego: la colpa fu addossata ad un innocente e quando la verità venne a galla il Vanni si era già dato alla macchia e al brigantaggio. Condannato in contumacia nel 1295, continuò ancora per un po’ a saccheggiare e a far dire di sé; in seguito se ne perdono le tracce e dovrebbe essere morto non oltre il 1300: non si sa stabilire se ammazzato o di morte naturale.

            È chiaro che qualsiasi riferimento ad un tal soggetto non potrà che stimmatizzare la bestialità appunto di un’esistenza bieca e malvagia; quando lo sentiamo parlare dei suoi trascorsi ne La Divina Commedia, non potrà che essere dall’Inferno e nell’Inferno(2), ma la trasfigurazione poetica lo afferra e lo rende tipico, facendolo assurgere a emblema insuperabile di cattiveria perfida e espressione ributtante della più squallida dannazione. Bastano pochi versi a delineare il fosco primato che gli spetta tra tutti i dannati danteschi. Principiamo dal verso finale del Canto XXIV:
                        “E detto l’ho perché doler ti debbia!”.

            Subito prima la “bestia” ha avventato una sua enigmatica profezia sul futuro esilio di Dante da Firenze: è la quarta volta che il Poeta sente nell’Inferno di questi presagi amari e val la pena accennarli anche solo di sfuggita: ne parleremo in seguito più diffusamente, prendendo in considerazione anche altri elementi, affrontando il tema dell’esilio.
            Altri, come il buon diavolo del fiorentino Ciacco(3), – buon diavolo si fa per dire -, aveva predetto alterne vicende fra le parti avverse e che l’esito finale sarebbe stato sfavorevole al suo commosso concittadino.
            Farinata (Manente) degli Uberti(4), con un fare assai diverso e certamente in tono di irosa ritorsione, aveva anche lui predetto l’esilio, volutamente calcando l’accento e insistendo sulla pesante difficoltà di apprendere l’arte del ritorno in patria, ma nelle sue parole sembra esserci come una vaga vena di solidarietà, come dicesse: peso e insuccesso gravano su quelli della mia parte,… e pure tu (non: tu pure!), tra non molto, ne saprai qualcosa.
            Brunetto Latini(5), quanto al futuro esilio del suo discepolo, si schiera apertamente e paternamente tutto per Dante, riconoscendogli di essere dalla parte giusta.

            Vanni Fucci, lui ha esclusivamente il puro gusto di ferire, di far soffrire, seminare oscuri e funesti presentimenti, in cambio di nulla: è la cattiveria assoluta, – non più concettuale astrazione del pensiero -, che diventa persona in un personaggio.
            Poi, all’inizio del Canto XXV, arriva la bestemmia di sfida, urlata e mimata, con i pugni chiusi e i pollici stretti e sporgenti tra indice e medio: infame, diretta e gratuita; capace, per così dire, di provocare un’aggiunta di pena alla già grave pena: una serpe soffoca il “bestia”, strozzandogli la voce in gola, e un’altra lo immobilizza, impedendogli qualsiasi movimento ed ogni minimo gesto. (continua)

Note
(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, XXIV, 122-126
(2) o. c., Inferno, XXIV, 121-151; XXV, 1-9
(3) o. c., cfr. Inferno, VI, 58-75
(4) o. c., cfr. Inferno, X, 22-51.73-93; Manente, detto Farinata per i suoi capelli biondo platino.
(5) o. c., cfr. Inferno, XV, 55-96

Come dire la Pasqua

Come dire la Pasqua? Nei paesi dell’oriente cris6ano, da questa notte chiunque s’incontri per la strada si scambia un saluto che è soprattutto un annuncio

Leggi »