Orribil furon li peccati miei;
                                      ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
                                      che prende ciò che si rivolge a lei.

            Per sapere esattamente come stiano le cose nell’aldilà bisogna esserci, ma dovrebbe essere solo questione di tempo. Intanto, più o meno ragionevolmente, possono essere fatti alcuni tentativi di previsione e una di queste, fra le tante, è che il peccato non ci stia di casa neanche per celia. Piuttosto, stabilito che, chi più e chi meno, in fin dei conti siamo tutti peccatori, la situazione nel mondo di là viene a dipendere strettamente dal peccato del mondo di qua, nel senso che o lo si paga o se ne è perdonati. Corrispondentemente si parlerà di Inferno oppure di Paradiso, l’accesso a quest’ultimo potendo essere preceduto da una preliminare sosta in Purgatorio.

            Nel nostro mondo accade che a far le spese dei peccati di uno o di alcuni possano essere anche molti e, a volte, come si dice, anche i giusti per i peccatori; la retribuzione eterna è sempre individuale. Prendiamo in considerazione alcuni punti de La Divina Commedia, dove si parla di persone e della giustizia divina loro applicata o della misericordia loro concessa.

            Varcata la soglia della porta, su cui campeggia la scritta:
                        “Per me si va ne la città dolente,
                           per me si va ne l’etterno dolore,
                           per me si va tra la perduta gente.
                        Giustizia mosse il mio alto fattore:
                           fecemi la divina podestate,
                           la somma sapienza e ’l primo amore.
                        Dinanzi a me non fuor cose create
                           se non etterne, e io etterno duro.
                           Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.(1)”,

dopo un po’ ci si imbatte in Minosse, “e quel conoscitor de le peccata(2)”, il giudice infernale che non emette la sentenza di dannazione, stabilisce il “posto”, se si può dire, dove il dannato sarà punito.

            Troviamo in seguito, tra i sodomiti, Brunetto Latini, (cui si accennava nella 2a puntata di questa rubrica), che fa sapere che in quella schiera ci sono, “d’un peccato medesmo al mondo lerci.(3)”, Prisciano, Francesco d’Accorso e il vescovo Andrea de’ Mozzi.

            Per Dante, a torto o a ragione (un poca almeno, incliniamo a credere di sì) quelle di Bonifacio VIII son sempre cattive azioni e c’è chi si ritrova all’Inferno, certo per aver ceduto alla vecchia tentazione (la volpe cambia il pelo, ma non il vizio), ma l’istigatore ci ha la sua parte. Guido da Montefeltro, di cui abbiam detto qualcosa altre volte, è fra i consiglieri fraudolenti: la personale responsabilità di ciò che sta per compiere non gli sfugge dal momento che accetta l’assurda assoluzione, dice, “di quel peccato ov’io mo cader deggio,(4).

            Il Purgatorio, proprio per la sua transitorietà e per il traguardo felice a cui tende, è espressione della misericordia divina, accordando il perdono in seguito all’umile confessione delle proprie colpe, anche quando non ci sia tempo e modo per offrire una qualche riparazione.

            Manfredi di Svevia, personaggio assai noto alla storiografia, si presenta, introdotto dai versi:
                           biondo era e bello e di gentile aspetto,
                           ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

            Fra le diverse vicende, questo Hohenstaufen incorse due volte nella scomunica e scomunicato morì nella battaglia di Benevento, nel 1266. Secondo Dante ebbe tempo di pentirsi e ciò l’ha salvato, potendo confessare contrito: “Orribil furon li peccati miei;(5)” e andando ad espiare nell’Antipurgatorio. (continua)

Note

(1) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, Inferno, Canto III, 1-9
(2) o.c., Inferno, V, 9
(3) o.c., Inferno, XV, 108
            Prisciano fu un grammatico latino, nato a Cesarea in Mauritania nella seconda metà del sec. V; non è noto perché Dante lo collochi all’Inferno.
            Francesco d’Accorso o d’Accursio, in latino Franciscus Accursius (Bologna, n.1225, m. 1293), è stato un giurista e letterato italiano, figlio del celebre glossatore Accursio. Anche di lui non è noto perché Dante lo collochi all’Inferno.
            Membro della nobile famiglia dei Mozzi, Andrea fu cappellano dei papi Alessandro IV e Gregorio IX, e venne inviato come intermediario per la pace fra Bianchi e Neri, da papa Niccolò III. Nel 1287 fu nominato vescovo di Firenze e diede impulso alla costruzione della chiesa di S. Croce e dell’Ospedale. Con grande scalpore, nel 1295, Bonifacio VIII, il “servo de’ servi”, lo trasferì “d’Arno in Bacchiglione (ivi, v. 113)”, cioè a Vicenza, “dove lasciò li mal protesi nervi (ivi, v. 114)”, morendo nell’anno successivo. Poiché questo episodio appartiene alla sua giovinezza fiorentina, Dante ricorda bene questo trasferimento, le chiacchiere che ne seguirono ed i giudizi negativi sul vescovo e ciò, secondo i commentatori, spiega il tono sprezzante riservato a questo personaggio a differenza del tono pieno di rispetto adottato dal poeta con Brunetto e anche con i due precedenti.
(4) o.c., Inferno, XXVII, 109
(5) o.c., Purgatorio, III, 121
            Manfredi, in una guerra di tre anni, riconquistò contro il legato pontificio tutto il regno di Sicilia, facendosi incoronare re a Palermo (1258). Riprese la politica degli Svevi in Italia e si inserì ovunque nelle lotte delle fazioni cittadine, fino alla vittoria dei Ghibellini a Montaperti, il 4 settembre 1260, che segnò il culmine della sua potenza. Ma la Chiesa continuava ad essergli ostile: era già stato scomunicato una prima volta nel 1254, e il provvedimento fu poi ribadito da numerosi pontefici. Il papa Urbano IV decise di offrire il regno a Carlo I d’Angiò (1263), il quale ottenne l’aiuto dei banchieri toscani. Abbandonato via via dai suoi alleati, lo Svevo affrontò Carlo nella battaglia di Benevento (2 febbraio 1266), dove fu sconfitto e morì sul campo. Il cadavere fu sepolto presso un ponte, poi fu fatto disseppellire e disperdere dall’arcivescovo di Cosenza, su ordine di papa Clemente IV: “Or le bagna la pioggia e move il vento” (ivi, v. 130) si lamenta l’anima purgante. E qui, ancora una volta, il Poeta si ispira all’Eneide di Virgilio, riprendendo il v. 362 del libro VI: «Nunc me fluctus habet versantque in litore venti», ossia «Ora mi tiene l’onda e mi avvolgono i venti sulla spiaggia», là dove si parla di Palinuro.

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