GIORGIO VASARI, Melchisedek e Abramo

“senza principio di giorni né fine di vita(8)

            Tra un distico di Tibullo, una profezia di Isaia, considerazioni varie, magari neppure tutte necessarie e pertinenti, (ma, speriamo, non esclusivamente curiose e peregrine), riprendiamo a parlare di speranza e di pace, ricominciando dalla guerra.
            Speranza e pace sono espresse, tra l’altro, da una profezia contenuta nel Libro di Zaccaria, penultimo nel canone dei dodici Profeti cosiddetti “minori”. La composizione di questa opera ha da sempre suggerito una netta distinzione tra i primi otto capitoli e i sei successivi: senza entrare in merito alla struttura e alle plausibili datazioni di questo scritto, ci limitiamo a citare la profezia sopra accennata, precisando che si trova come conclusione di quella che possiamo chiamare la prima parte del volume.

            «… Così dice il Signore degli eserciti: Anche popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l’un l’altro: “Su, andiamo a supplicare il Signore, a trovare il Signore degli eserciti. Anch’io voglio venire”. Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore.

            Così dice il Signore degli eserciti: In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle nazioni afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo udito che Dio è con voi”(1)».

            Con ogni evidenza, dopo l’esaltazione della grandezza del Signore, un ruolo unico spetta a Gerusalemme e al popolo giudaico; tuttavia c’è l’apertura verso una prospettiva comprensiva di ogni “lingua, popolo e nazione(2)”, senza esclusioni, fondata sulla certezza che “la salvezza viene dai Giudei”(3).

            Intanto anche Abramo, “nostro padre nella fede(4)”, un po’ dopo l’ordine ricevuto dal Signore di andarsene dalla sua terra(5), si trovò anche lui a dover intervenire in una guerra che aveva visto quattro re contro altri cinque, fra i quali ultimi il re di Sòdoma e il re di Gomorra. Alla vittoria dei quattro re seguì la razzia e la cattura di prigionieri, compreso Lot, che era nipote, parente, o cosa fosse, di Abramo e risiedeva per l’appunto a Sòdoma, ciò che indusse Abramo ad organizzare una spedizione al contrattacco(6). Riportiamo qui sotto il testo del seguito di quella vicenda.

            «Quando Abram [Abramo da Gn 17,5 in poi] fu di ritorno (con “14bi suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto”), dopo la sconfitta di Chedorlaòmer e dei re che erano con lui, il re di Sòdoma gli uscì incontro nella valle di Save, cioè la valle del Re. Intanto Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole:

                        “Sia benedetto Abram dal Dio altissimo,

                        creatore del cielo e della terra,

                        e benedetto sia il Dio altissimo,

                        che ti ha messo in mano i tuoi nemici”.

Ed egli diede a lui la decima di tutto.

            Il re di Sòdoma disse ad Abram: “Dammi le persone; i beni prendili per te(7)”».

            È su questo misterioso personaggio che ci soffermiamo un momento, cominciando con il riportare in proposito un passo della Lettera agli Ebrei, continuando, come sopra, ad usare il corsivo per evidenziare le relative corrispondenze verbali.

            «Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa «re di giustizia»; poi è anche re di Salem, cioè «re di pace». Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre(8)».

            Tutto il capitolo XIV della Genesi è un perfetto resoconto di una vicenda bellica, così come tali eventi venivano registrati un tempo in un documento o su una stele della vittoria, anche se di questa guerra non si hanno notizie extrabibliche. Si può ragionevolmente supporre che il pane e il vino offerti da Melchìsedek siano stati a sostentamento di questo manipolo di trecentodiciotto esperti nelle armi, messo su da Abramo, o abbiano costituito la materia per un sacrificio propiziatorio di comunione. Perché poi sia stato precisato questo numero di componenti ha impegnato molto i cabalisti e non solo, ma con certezza niente si può dire e diversi commentatori passano decisamente oltre. Non si potrebbe forse escludere che tale numero possa essere legato al fatto che si trattava di “schiavi nati nella (…) casa” di Abramo, quasi una sorta di anticipazione della futura contrapposizione tra Ismaele, il figlio della “schiava” e Isacco, il figlio della “donna libera”(9).

            In particolare, la solenne benedizione del “sacerdote del Dio altissimo” poté essere stata pronunciata in due momenti diversi: “Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra”, prima della spedizione, e la restante parte, “benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici”, dopo la vittoria riportata da Abramo e dai suoi.

            Un’osservazione: il re di Sòdoma, secondo la narrazione, lascia ad Abramo il bottino (e non si vede come diversamente avrebbe potuto pretenderlo), richiedendo solo la restituzione delle persone, che, ovviamente, in buona parte costituivano quanto occorreva per riorganizzare il suo esercito e renderlo disponibile nel caso di dover affrontare nuovi attacchi. Il testo masoretico suona letteralmente: “Dammi l’essere umano (tèn-lî́ hannèfeš)”, che la LXX tradusse correttamente: “Δός μοι τοὺς ἄνδρας (Dammi gli uomini)”; in latino invece “nèfeš” venne reso, come di per sé è anche possibile per l’ampiezza di accezione di quel vocabolo, con il termine “anima”, però messo al plurale, come si trattasse di un nome collettivo. Complessivamente ne venne fuori il celebre “Da mihi animas, cetera tolle”, ossia come si chiedessero al Signore le anime, rinunciando a tutto il resto, aforisma su cui si è sbizzarrita buona parte dell’oratoria ascetica e mistica, nonché l’epopea missionaria.

            Chissà se un vago ricordo di quella impetrazione non soggiaccia all’esclamazione indirizzata da san Francesco in risposta a papa Onorio a proposito dell’Indulgenza della Porziuncola: “Santo padre, la sua santità voglia dare non anni, ma anime”(10).

(1. continua)

Note

  (1) Zc 8,20-23
  (2) Ap 5,9
  (3) Gv 4,22
  (4) Canone romano
  (5) Gn 12,1-3
  (6) Gn 14,1-16
  (7) Gn 14,17-21
  (8) Eb 7,1-3
  (9) Gal 4,22
(10) Fonti Francescane, 2706/10

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