Ma!… l’è tutt’un gran mistero.
Una ripetizione celebre e solenne si trova nell’Inferno della Commedia dantesca:
                    vuolsi così colà dove si puote
                           ciò che si vuole, e più non dimandare(1).

            Chi proferisce questa sentenza è Virgilio e si tratta sempre di mettere a tacere un demone particolare, che vorrebbe opporsi al viaggio di Dante, vivo, attraverso i luoghi dei morti destinati allo “etterno dolore(2)”.
            Il primo a far resistenza è Caronte, personaggio mitologico presente anche nella commedia Le rane di Aristofane, ma più specialmente nel VI dell’Eneide di Virgilio. Dante lo descrive sostanzialmente come lo aveva presentato il suo “maestro(3)”: è “un vecchio, bianco per antico pelo(4)” e “con occhi di bragia(5)”, dichiarato inoltre “dimonio(5)”, come demoni, in ambito cristiano, diventano tutte le divinità pagane delle tenebre, spogliate della loro personalità falsa e bugiarda(6) e ridotte a mere tormentate esecutrici di tormenti altrui.
            Minosse è il secondo mostro infernale messo a tacere con quelle stesse parole. La mitologia ha ampiamente circondato di leggenda questo personaggio, a cui, in sede storica, fa cenno Tucidide ne La guerra del Peloponneso, per ricordare la flotta di questo re, che era stata la più antica espressione di potenza marinara. Come giudice dei morti ne aveva già parlato Omero, ma soprattutto Virgilio, sempre nel VI dell’Eneide; anche in questo caso, da qui attinge Dante, che spiega con sintesi tragicamente epica il gesto di un verdetto muto e inappellabile:
                           giudica e manda secondo ch’avvinghia(7)”.

            L’apostrofe di cui stiamo parlando è perentoria e dirimente; trae la sua forza da una duplice certezza, generale e particolare: Dio (che non si può nominare nell’Inferno e a cui, se si deve farlo, si può accennare attraverso perifrasi, anche solo implicite, cosicché “colà” sta al posto di Paradiso, Empireo e simili, e così il luogo abitato sta al posto del suo sovrano Abitatore) può tutto ciò che vuole, sempre; in particolare vuole il “fatale andare(8)” di Dante.
            Questa ripetizione può anche indurre a pensare che queste parole Virgilio (cioè Dante) se le ridica prima di tutto a se stesso, per ribadire una fiducia che, umanamente, potrebbe talora anche un po’ vacillare, e vuole rintuzzare comprensibili incertezze e pure qualche vaga perplessità.
            Per dire: Virgilio contribuisce alla salvezza di Stazio, ma lui ne resta escluso, perché ha fatto
                        “… come quei che va di notte,
                           che porta il lume dietro e sé non giova,(9)”.

            Accettata la supposta dimensione profetica della IV Ecloga, (in particolare il v. 7: “jam nova progenies caelo demittitur alto”, che Dante traduce “e progenïe scende da ciel nova(10)”, intendendo il verso come un preannuncio del Natale), emotivamente verrebbe quasi da riverberare i benefici effetti conseguiti a vantaggio della stessa causa producente: ma non è così, Stazio è salvo, Virgilio no.

            Altro caso: Bonifacio VIII andrà pure a finire a gambe ritte all’Inferno(11), ma intanto Dante (e non lui soltanto) ne fa amaramente le spese in questo mondo. Ci vuole un certo sforzo per accettare una realtà, che, da una parte, può indurre a sospettare anche fortemente la non canonicità dell’elezione, viziata da simonia,… ma intanto la Provvidenza almeno permette e tollera di fatto che egli sia il successore di Pietro; assai più difficile poi è assistere ai diversi guai che, sempre secondo Dante, quel papa combinerà, il più grave dei quali è certamente la procurata dannazione di Guido da Montefeltro(12). Perché, ovviamente, non è detto che il parere di Dante corrisponda al giudizio di Dio, ma il Poeta deve pur trovare dentro di sé un qualche accordo tra la sua fede e le sue opinioni.
            A volte la ripetizione non si configura esattamente nella materiale riproposta di una stessa frase, ma è un ritornare, ad un più ampio livello concettuale, sullo stesso spigoloso argomento, che non ha trovato (né poteva trovare) una soddisfacente risposta, obbligandosi a riaffermare a sé e agli altri che le cose devono andare bene così come vanno. Sempre per dire, e per dire in termini volutamente spicci, anche se non troppo acconci: ma i diversi gradi di beatitudine, in Paradiso, accontentano proprio tutti? Il Poeta se lo chiede e mette la risposta sulle labbra di Piccarda Donati, che gli appare nel cielo della Luna:
                        “E ’n la sua volontade è nostra pace:
                           ell’è quel mare al qual tutto si move
                           ciò ch’ella cria e che natura face.(13)”.

            Ne restiamo un po’ tutti quanti alquanto più consolati, per via di quella pace sicuro possesso dei Santi e speranza ultima di ogni uomo; ma domani (forse anche prima) torneremo ad interrogarci un’altra volta sulla volontà di Dio, che è, alla fine, la più impegnativa petizione del “Pater noster”: “fiat voluntas tua, sicut in caelo, et in terra(14)”.                     (fine)

NOTE
(1) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, Inferno, III,95-96.V,23-24
(2)                                                                 o. c., Inferno, III,2
(3)                                                                 o. c., Inferno, I,85
(4)                                                                 o. c., Inferno, III,83
(5)                                                                 o. c., Inferno, III,109
(6)                                                           cfr. o. c., Inferno, I,72
(7)                                                                 o. c., Inferno, V,6
(8)                                                                 o. c., Inferno, V,22
(9)                                                                 o. c., Purgatorio, XXII,67-68
(10)                                                                o. c., Purgatorio, XXII,72
(11)                                                          cfr. o. c., Inferno, XIX,52-57
(12)                                                          cfr. o. c., Inferno, XXVII,85-132
(13)                                                                o. c., Paradiso, III,85-87
(14) Mt 6,10

P. S.: Riporto qui la motivazione con cui il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, su proposta del Ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha firmato il decreto di conferimento della

Medaglia d’oro al Valor Civile alla memoria del Sig. Willy Monteiro Duarte

«Con eccezionale slancio altruistico e straordinaria determinazione, dando prova di spiccata sensibilità e di attenzione ai bisogni del prossimo, interveniva in difesa di un amico in difficoltà, cercando di favorire la soluzione pacifica di un’accesa discussione.

Mentre si prodigava in questa sua meritoria azione di alto valore civico, veniva colpito da alcuni soggetti sopraggiunti che cominciavano ad infierire ripetutamente nei suoi confronti con inaudita violenza e continuavano a percuoterlo anche quando cadeva a terra privo di sensi, fino a fargli perdere tragicamente la vita,

Luminoso esempio, anche per le giovani generazioni,
di generosità, altruismo, coraggio e non comune senso civico,
spinti fino all’estremo sacrificio».

            In un certo senso anche questa è una ripetizione, perché di Willy avevo già scritto qualcosa nel mio articolo del 17 settembre scorso, e un confratello ne aveva anche lui scritto, in “Pensieri dall’Eremo”, sei giorni dopo; ma in casi come questo aggiungere, motivare, riflettere e ripetere giova, giova molto, deve assolutamente giovare.

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