SERVIZIO. Fare bene il bene

F. Gonin, Donna Prassede e Lucia

            Il testo della “Belle prière” prosegue con tre passivi (être consolé, être compris, être aimé), ai quali si chiede la grazia di saper sostituire il proprio impegno attivo nel consolare, comprendere, amare. Qui la preghiera ha qualche elemento in comune con uno dei detti del beato Egidio (terzo compagno di S. Francesco): «Beatus ille, qui amat et non desiderat inde amari; beatus, qui timet et non desiderat inde timeri; beatus, qui servit et non desiderat inde serviri; beatus qui bene se gerit de aliis et non desiderat, quod alii se bene gerant de ipso» (Dicta Beati Aegidii Assisiensis, Quaracchi 1905, p. 4). [Beato chi ama e non desidera perciò essere riamato; beato chi teme e non desidera di essere a sua volta temuto; beato chi si comporta bene nei confronti degli altri e non desidera che gli altri si comportino bene nei suoi confronti].

            In ogni caso, vi si sente trasparire, esemplificare e attualizzare l’insegnamento di S. Paolo, che negli Atti degli Apostoli, congedandosi a Mileto dagli anziani di Efeso, riferisce loro un agraphon di Gesù: «Μακάριόν ἐστιν μᾶλλον διδόναι ἢ λαμβάνειν.», [Makárión estin mâllon didónai ề lambánein] che la Neovulgata traduce: «Beatius est magis dare quam accipere.» (Act 20,35). [Si è più beati nel dare che nel ricevere].

            Come sempre accade per quanto ci è stato tramandato in greco e che costituisce un ‘logion’ di Gesù, – ove il greco non sia la traslitterazione di una voce aramaica, seguita dalla sua traduzione, come, ad esempio, «Ταλιθα κουμ» (Talithà koum), che in aramaico suonerebbe «Ṭalyethā́ qû́mî» e in italiano «Fanciulla, io ti dico: àlzati!» (in ebraico a “fanciulla” corrisponde “yaldā́”) (Mc 5,41); oppure «Εφφαθα» (Ephphethà), in aramaico «’ippattáḥ» (al posto dell’ebraico «hippāthḗaḥ») e, finalmente, in italiano «Apriti!» (Mc 7,34) –, viene fatto di domandarsi come quelle parole avrebbero potuto suonare, quando sono state pronunciate. Per l’ebraico si trova la classica traduzione – ovviamente congetturale – «ṭôv ’ăšer-tittḗn miššettiqqā́ḥ» che potrebbe rendersi alla lettera con «Felice tu che dài più di te che ricevi», passando da un’affermazione di principio ad una direttamente personalizzata e coinvolgente, come è proprio del parlare biblico, che non dice, tanto per esemplificare, che non si deve uccidere né rubare, ma piuttosto: «Non ucciderai;… Non ruberai». Per completezza, riportiamo anche la stessa frase in ebraico ‘corrente’: «ṭôv lāthḗth millāqáḥath», alla lettera “bene a dare (più) che a ricevere”.

            A questo proposito, ricordiamo quanto ebbe a scrivere il fondatore del Rotary, ossia la fondamentale convinzione a cui si accennava: «Insieme ai miei amici soci ho imparato a concentrare l’attenzione sulle opere buone, dare piuttosto che ricevere.» (Paul P. Harris, This Rotarian Age, Chicago, 1935), dove la personalizzazione e il coinvolgimento sono bene espressi da quell’imparare, per quanto già lodevole in sé, non esclusivamente da solo, ma insieme agli amici soci.

            Veniamo finalmente a ciò che più direttamente è oggetto di questa conversazione. Le ultime quattro righe a conclusione della “Bella preghiera”, la prima di queste in particolare, dichiarano bene (si passi il bisticcio di parole) come fare bene il bene, ossia, come servire, perché il servizio (quello non coatto o di mestiere) consiste proprio in questo: nel fare bene il bene.

            Un acuto e celebre ritratto, finemente psicologico ed ironico, stilato dal Manzoni, con i suoi rilievi in negativo può forse aiutare, meglio di tante frasi programmatiche, ad introdurre la riflessione su come fare bene il bene.

            «Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c’era di reale, o di vederci ciò che non c’era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta…. come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello.» (I promessi sposi, XXV).

            «Non parlo de’ contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d’altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza.» (o. c., XXVII).

2 – continua

Come dire la Pasqua

Come dire la Pasqua? Nei paesi dell’oriente cris6ano, da questa notte chiunque s’incontri per la strada si scambia un saluto che è soprattutto un annuncio

Leggi »