SOLVE CALCEAMENTA DE PEDIBUS TUIS

Michelangelo Buonarroti, Mosè, 1513-1515; 1542
Basilica di S. Pietro in Vincoli, Roma.

“Amramide, cornigero Apella”

            Può succedere che uno scrittore e che, più ancora, un poeta facciano ricorso a situazioni e personaggi, storici o mitici o fantastici che siano, per istituire paragoni e confronti o anche solo per evocare suggestioni o indurre stimolo alla riflessione.
            Può accadere però che il lettore non sia sempre a conoscenza di quello di cui si tratta in quella citazione o perifrasi cha ha davanti agli occhi: il ricorso consultivo alle note esplicative a piè di pagina, quando pure colmino l’eventuale carenza culturale, quanto meno interrompe la scorrevolezza della lettura e incrina la fluidità dell’immagine prospettata.
            Proviamo un po’ arditamente a considerare una celebre terzina del Paradiso dantesco:
                        Qual si partio Ipolito d’Atene
                           per la spietata e perfida noverca,
                           tal di Fiorenza partir ti convene(1).

            Supponiamo che prima di soffermarsi direttamente sul testo sia stato ricordato al lettore, magari con un po’ di abbondanza, quanto scrivemmo in un nostro articolo del giovedì 1 aprile 2021, o, comunque, qualcosa di simile e, probabilmente, anche meglio: allora dal testo emergono immediatamente e con vivacità l’ingiuriosa calunnia che decreta la necessità dell’esilio del Poeta e il suo amore-odio per Firenze, che è nello stesso tempo la nuova Atene del momento (anche e specialmente per la persona stessa di Dante), ma anche la perfida città matrigna. Il lettore può fantasticare liberamente tra l’affanno concitato della corsa folle del carro di Ippolito e l’andare preoccupato, stanco e irato nello “scendere e ’l salir per l’altrui scale(2)” dell’Exul immeritus. Se si può chiamarla giustizia e riabilitazione, Ipparco muore riconosciuto innocente: quando scriveva quei versi, sognava il Poeta un riconoscimento della sua  innocenza e anche del suo genio? L’innegabile dotta aulicità della terzina si stempera in un intreccio di sentimenti, di sdegno e magari di una vaga speranza accarezzata e i versi vengono apprezzati per quello che sono : alta e malinconica poesia.

            Vorremmo nel seguito soffermarci su alcuni distici elegiaci anonimi (sono sedici), collocandoli nel loro spazio (l’epoca di composizione può essere approssimativamente dedotta solo a partire dallo stile), provando a proporne una lettura corretta e indicando ipotetici complementi per riempire le lacune lasciate dall’erosione del tempo. Senza nulla togliere alla stima per l’impegno profuso dall’Autore, anticipiamo subito che non si tratta di un Tibullo, tanto per dire: né per estensione né per pregio; però la storia, e la storia della letteratura pure, è fatta soprattutto di piccole cose.

            Provando ad applicare, non con meno ardire, il criterio sopra esposto, quasi una sorta di explicatio praevia, all’elegia di cui parleremo, diamo un po’ di spazio a inquadrare persone e luoghi, non sempre così universalmente noti, che, nominativamente o mediante perifrasi, vengono richiamati in quel componimento.

            Il primo personaggio in apertura è biblico: si tratta di Mosè, il cui nome, però, non compare mai. Lo troviamo subito in uno dei momenti determinanti della sua vita e della sua missione: davanti al roveto ardente. Ecco il passo di riferimento dal Libro dell’Esodo: tutte le altre citazioni che lo riguardano vengono dal medesimo Libro.

            Es 3 1Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». 4Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». 5Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».

            La sisto-clementina e la neovulgata scrivono così l’ultimo periodo:

            Es 3 5«… solve calceamentum de pedibus tuis; locus enim, in quo stas, terra sancta est».

            “Calceamentum” corrisponde a “τὸ ὑπόδημα” della LXX; nell’elegia si legge invece il plurale “calceamenta”, conforme al masoretico “ne‘ālềkhā́”, plurale che, in ogni caso, deve avere un po’ sempre prevalso nelle citazioni latine correnti. In tempi recenti, ad esempio, fu adoperato da Paolo VI nella lettera da lui scritta (o fatta scrivere dal curiale latinista di turno) il 12 settembre 1974 al cardinale Silvio Oddi, designato presidente del Congresso eucaristico di Salta, in Argentina:

            “Quare iure merito ei, qui ad hoc mirabile sacramentum (Eucharistiae) accedit, eadem fieri verba videntur, quae Moysi: «Solve calceamenta de pedibus tuis; locus enim in quo stas, terra sancta est» (Ex. 3, 5)”.
            Mosè, sempre in quella “elegiuncola”, come modestamente la chiamò l’Autore, viene anche evocato con il patronimico “Amramide”, avendo presente il duplice testo relativo alla sua ascendenza:

            Es 2 1Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una discendente di Levi. 2La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. (…) 6 20Amram prese in moglie Iochebed, sua zia, la quale gli partorì Aronne e Mosè. Gli anni della vita di Amram furono centotrentasette.

            Il seguente passo, assai oscuro, dà poi spunto per rilevare la sua circoncisione, cosicché Mosè è chiamato “Apella”:
            Es 4 24Mentre era in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore lo affrontò e cercò di farlo morire. 25Allora Sipporà prese una selce tagliente, recise il prepuzio al figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: «Tu sei per me uno sposo di sangue». 26Allora il Signore si ritirò da lui. Ella aveva detto «sposo di sangue» a motivo della circoncisione.

            Infine l’epiteto “Cornigero”, in ossequio alla tradizione consolidata.
            Es 34 29Quando Mosè scese dal monte Sinai – le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte – non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui. 30Ma Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui. 31Mosè allora li chiamò, e Aronne, con tutti i capi della comunità, tornò da lui. Mosè parlò a loro. 32Si avvicinarono dopo di loro tutti gli Israeliti ed egli ingiunse loro ciò che il Signore gli aveva ordinato sul monte Sinai.
            33Quando Mosè ebbe finito di parlare a loro, si pose un velo sul viso. 34Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui, Mosè si toglieva il velo, fin quando non fosse uscito. Una volta uscito, riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. 35Gli Israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il velo sul viso, fin quando non fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore.

            Le corna sul capo di Mosè, tipiche della sua iconografia, sono probabilmente dovute ad un errore di traduzione del precedente passo del Libro dell’Esodo in particolare del v. 29, nel quale appunto si narra che Mosè, scendendo dal monte Sinai, avesse la pelle del suo viso raggiante. L’ebraico “qārán” – “essere raggiante” – potrebbe essere stato confuso con “qèren” – “corna”. Alla persistenza dell’errore può aver contribuito anche il fatto che nel Medioevo si riteneva che solo Gesù potesse avere il volto pieno di luce, come suggerisce il Vangelo secondo Matteo:

            Mt 17 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce (καὶ μετεμορφώθη ἔμπροσθεν αὐτῶν, καὶ ἔλαμψεν τὸ πρόσωπον αὐτοῦ ὡς ὁ ἥλιος, τὰ δὲ ἱμάτια αὐτοῦ ἐγένετο (ἐγένοντο) λευκὰ ὡς τὸ φῶς).

(1. continua)
Note
(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, XVII, 46-48.
(2) o. c., Paradiso, XVII, 60.

Come dire la Pasqua

Come dire la Pasqua? Nei paesi dell’oriente cris6ano, da questa notte chiunque s’incontri per la strada si scambia un saluto che è soprattutto un annuncio

Leggi »