Norman Rockwell, The Golden Rule, Palazzo dell’O.N.U.
DO UNTO OTHERS AS YOU WOULD HAVE THEM DO UNTO YOU
FA’ AGLI ALTRI QUELLO CHE VORRESTI GLI ALTRI FACESSERO A TE

            Nell’articolo precedente, in nota, scrivevamo: “I precetti di Ciro il Grande sono stati tradotti nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite e i primi quattro articoli della Dichiarazione del 10 dicembre 1948 riprendono lo spirito e i principi sanciti dalle norme dettate dall’eletto (māšîaḥ) del Signore (Is 45,1)”. Nel Palazzo dell’O.N.U. si trova anche un mosaico che raffigura persone delle più diverse etnie e appartenenze religiose con la scritta, a tutte maiuscole, della “Regola d’oro”, in una delle sue possibili formulazioni affermative. Appunto tra le diverse e, concettualmente, equivalenti espressioni, originate in tempi abbastanza remoti e in ambiti culturali assai disparati, ce n’è una nell’Odissea, sulla quale ci è capitato di soffermarci, e che ci è parso quasi doveroso presentarla un po’, o anche solo richiamarla alla mente di chi già la conoscesse, come un naturale complemento alla nota sopra citata: come dire che, una volta dichiarato il diritto nativo dell’uomo, è bene stabilire anche il principio che deve informare il suo agire.

            Da Confucio ai Vangeli e per un lungo elenco di opere e persone, non mancano elementi in proposito di tutto spicco: la scelta fatta, cioè di soffermarci appunto su due versi di Omero, non vuole significare in alcun modo una sua prevalenza su altri Autori, che, se ci fosse, non dipenderebbe certamente dal nostro parere. Gl’è che avevamo da ragionarci un po’ sopra per altri motivi (chiamia-moli pastorali e omiletici) e, rimuginandoci neanche poi tanto, ha destato interesse l’ambientazione dell’aforisma, la voce che lo proclama e lo stato d’animo di chi lo ascolta.

LA REGOLA D’ORO

La grotta di Calipso

            Nel Libro V dell’Odissea, quando Zeus, – forse convinto dalla perorazione di Atena o, piuttosto, mosso da personale e diffusa invidia celeste, come lamenta Calipso -, invia Hermes, perché ordini alla Ninfa di lasciar partire Odisseo, da lei trattenuto per ben sette anni, viene dal Nume stabilito anche il modo della partenza dello sconsolato prigioniero: dovrà affrontare il mare aperto su una zattera improvvisata, sia per reperimento di materiale che per costruzione, dallo stesso avventurato partente.

            La cosa in sé sa di imbroglio e non può convincere l’acuto e astuto ideatore del cavallo di Troia. L’intervento rassicurante e solennemente giurato da parte della spasimante amante, (pare, non propriamente in modo folle, ma, comunque, riamata quanto basta per averne quattro figli, tali Nausitoo, Nausinoo, Teledamo e Latino; sempre che non fossero stati partoriti al mitico eroe, tutti o solo qualcuno, piuttosto dalla maga Circe, “che [lo] sottrasse | (me) più d’un anno là presso a Gaeta, | prima che sì Enea la nomasse, | (1)” ; se poi, addirittura, Latino non fosse il figlio incestuoso del figlio del re d’Itaca, Telemaco, natogli da Penelope, e della solita maliarda….), stabilisce una norma morale che va oltre la poetica espressione del dramma di una separazione imposta, lasciando spazio alla coscienza e al cuore di volere sinceramente il bene altrui come lo si pensa e lo si progetta per se stessi. Vi si è un po’ da sempre scorta una possibile e plausibile formulazione in tono affermativo della cosiddetta “regola d’oro”. I versi in questione (vv. 188-189), pronunciati dalle labbra della Dea, suonano:
                        ἀλλὰ τὰ | μὲν νοέ|ω || καὶ | φράσσομαι, | ἅσσ’ ἂν ἐ|μοί περ
                        αὐτῇ | μηδοί|μην, || ὅτε | με χρει|ὼ τόσον | ἵκοι· (2)

            Una possibile traduzione letterale in latino è la seguente:
                        sed quæ autem cogito et meditabor, quæque mihimet
                        ipsi excogitarem, cum me necessitas talis teneret.
alla quale si può dare abbastanza facilmente la veste di esametri anche nella lingua di Lucrezio, di Virgilio e di Ovidio. Infatti, il primo verso presenta già i piedi di un esametro: bisognerà però ritoccarlo, ricorrendo all’asindeto ed eliminando la congiunzione “et”, dopo cui cadrebbe una cesura semiquinaria senza senso. Volendo, si possono anche immaginare due semplici varianti: una al plurale, modificando il solo primo emistichio, e l’altra al singolare, modificando un po’ tutto il primo verso. Il secondo lo adattiamo in modo unico, con una inversione iniziale (ipsi excogitarem → excogitarem ipsi) e sostituendo il doppio giambo “nĕcēssĭtās”, inutilizzabile nell’esametro, con il sinonimo monosillabo “vīs”.
                        sed qu(æ) au|tem cŏgĭ|tō, || mĕdĭ|tābor: | quæquĕ mĭ|hīmĕt
                        ēxcŏgĭ|tār(ēm) ī|psī, || cūm | mē vīs |tāntă tĕ|nērĕt. (3)
come anche con la prima leggera variante:
                        ēn ĕă, | quæ cŏgĭ|tō, || mĕdĭ|tābor: | quæquĕ mĭ|hīmĕt
                        ēxcŏgĭ|tār(ēm) ī|psī, || cūm | mē vīs |tāntă tĕ|nērĕt.
e, rispettivamente, con la seconda:
                        ēn id, | quod cŏgĭ|tō, || mĕdĭ|tābor: | tālĕ mĭ|hīmĕt
                        ēxcŏgĭ|tār(ēm) ī|psī, || cūm | mē vīs |tāntă tĕ|nērĕt.
            Infine, una possibile traduzione in italiano, in versi endecasillabi sciolti, è quella del 1822 di Ippolito Pindemonte:
                        Quello anzi io penso, e ti propongo, ch’io
                        Torrei per me, se in cotant’uopo io fossi.

            Notiamo di passaggio che un esametro spondaico consta di 13 sillabe effettive (ad esempio: “apparent rari nantes in gurgite vasto” (4)); il numero aumenta se ci sono elisioni: “monstrum horrendum, informe, ingens, cui lumen ademptum” (5) in prosa avrebbe 16 sillabe. Un esametro dattilico, a sua volta, è fatto di almeno 17 sillabe (come il celebre e onomatopeico “quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum” (6)), sempre al netto di eventuali elisioni. Con tutto questo si vuol dire che, di natura sua, – e ancora una volta elisioni a parte -, un endecasillabo risulta in generale essere troppo corto per una diretta corrispondenza e bisogna spesso ricorrere a qualche artificio, sempre rinunciando alla rima. Così “io” alla fine del primo verso sopra citato va considerato bisillabo, mentre è una sola sillaba in “anzi io” e “uopo io”, cosicché vengono lette come due parole bisillabe.

            Altre recenti traduzioni sono in prosa, come quella di Ettore Romagnoli (1926):
                        Medito quello, e quello per te penserò, che qualora
                        io mi trovassi in tal caso, pensare dovrei per me stessa.
o quella di V. Di Benedetto e P. Fabrini (2018)
                        Ma quello che penso e considererò è ciò che per me stessa
                        escogiterei, qualora necessità su di me tanto premesse.
            Rinunciando poi a mantenere la corrispondenza numerica tra verso originale e quello della traduzione, si può esprimere l’aforisma omerico in questione magari anche con una terzina dantesca, tipo questa, con cui ci siamo voluti sbizzarrire:
                        Ma quel ch’io penso e che terrò alla mente
                           è ciò ch’io stessa mi vedrei propensa
                           ad operar in un simil frangente.

NOTE
(1) cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, XXVI, 91b-93
(2) Traslitterazione:
                        allà tà mèn noéō kaì phrássomai, háss’àn emói per
                        aytēi mēdóimen, hóte me chreiṑ tóson híkoi;
Può essere di aiuto ricordare che φράσσομαι è, accanto a φράσομαι, il futuro medio di φράζω; ἅσσα, in ionico, sta per ἅττα = ἅτινα; μήδομαι, forma epica allungata per μέδομαι (latino “meditari”); χρειώ, similmente, per χρεώ, οῦς, ἡ.
(3) Le vocali non quantificate sono brevi di natura e allungate per posizione; il dittongo “æ” è ovviamente lungo; il bisillabo “mihi” (come anche “tibi”) è, secondo le esigenze, da considerarsi piricchio o giambo: qui è giambo.
(4) Publii Vergilii Maronis, Æneidos libri XII, I, 118
            (rari naufraghi appaiono nell’immenso mare)
(5) o. c., III, 658
            (un mostro orribile, deforme, enorme, cui manca un occhio)
(6) o. c., VIII, 596
            (lo zoccolo scuote il campo polveroso con quadrupede rimbombo)

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